IL MORBO - UNA CRONACA DEL 1770. INTERVISTA ALLO SCRITTORE STEFANO VALENTE

 di Laura Bonelli

Un romanzo colto, visionario che trascina il lettore in un piccolo paese del nord Europa dove divampa un morbo. Emozioni, sentimenti, paure e sogni si intersecano in un'atmosfera irreale, a tratti cupa, a volte piena di speranza. Eppure nel libro Il morbo - Una cronaca del 1770 (Graphofeel), scritto in tempi non sospetti, l'autore Stefano Valente anticipa, con una precisione che ha dell'incredibile, quanto abbiamo vissuto (e stiamo ancora vivendo) a causa del virus pandemico che è entrato con prepotenza nelle nostre esistenze da quasi due anni.





Com’è nata l’idea di questo romanzo?

 Un libro può nascere da un’emozione, da un episodio reale che ci ha coinvolto in maniera invincibile, travolto – persino da uno shock. Può derivare dalla lettura di altri libri – o magari dall’incontro con uno stile narrativo sconosciuto, che non ci appartiene e non sentiamo nostro, e tuttavia è in grado di aprire verso altre costruzioni linguistiche e può prepararci ad esplorare un nuovo panorama espressivo. Oppure è una semplice immagine, o una frase (a volte addirittura l’idea di un titolo), talmente “potenti” da trascinarsi dietro una storia intera. È ciò che è successo per Il Morbo – Una cronaca del 1770: qui sono partito dall’apocalittica visione finale del Vascello. Visione mia e dei personaggi. Apocalittica anche in senso etimologico: dal greco apokálypsis, ‘rivelazione, disvelamento’. Il misterioso, oscuro veliero immobile all’orizzonte, la cui apparizione coincide con l’inizio del romanzo e con l’erompere dell’epidemia (Il Morbo, per l’appunto), è la “presenza” che domina tutta la narrazione, l’evento che cambierà per sempre le vite di un’intera comunità, lo spettro da decifrare, esorcizzare o, chissà, cercare di comprendere e accogliere (e in quest’accezione nemmeno l’anonimo cronista, dopo la sua ricostruzione dei fatti, delle testimonianze, dei delirî, sarà più lo stesso).

Una visione, quindi, all’origine di un libro visionario. È da quella che, via via, hanno preso vita personaggi, ambientazioni, intreccio. E a mio avviso, comunque, l’embrione da cui poi un romanzo si sviluppa – o scaturisce – ha sempre qualcosa di magico, di inafferrabile, di fragilissimo e potentissimo allo stesso tempo...

 

All’interno del testo ci sono delle parti che descrivono l’epidemia con una similitudine sconcertante con ciò che abbiamo vissuto con Sars Cov 2. Hai fatto delle ricerche per scriverle?

 Il Morbo è stato scritto anni prima della pandemia che ancora segna le nostre esistenze. Sì, a posteriori devo ammettere che il racconto della malattia e dei suoi effetti, sanitari e sociali, viene spesso a coincidere con quanto abbiamo passato, o fortunatamente solo veduto, per il Covid 19. Posso dire di essermi documentato in ambito storico-medico sui grandi contagi del passato (come la peste bubbonica di manzoniana memoria), tuttavia la descrizione delle conseguenze dell’ignota infezione polmonare del libro sulla popolazione, i parallelismi innegabili tra questa storia settecentesca e la nostra attualità, drammaticamente inquietanti, sono il frutto del lavoro della scrittura. Quando si scrive, ci si spinge sempre fino all’esito estremo – si sviluppano tutte le possibilità che eventi, ambientazioni e figure, seppure fittizi, serbano in se stessi. Al termine, ciò che prevarrà – quel poco del molto che verrà scartato – sarà quanto di più funzionale alla narrazione. Questo, perlomeno, è il modo col quale tento di affrontare ogni soggetto. D’altra parte, dopo aver riletto Il Morbo fresco di stampa, dopo aver inevitabilmente confrontato l’epidemia narrata con quella vissuta, una frase, forse un motto, si è imposta alla mia coscienza: il presente ha un cuore antico. È anche, probabilmente, per questa convinzione che amo frequentare con la mia scrittura il genere del romanzo storico. Ciò che è trascorso, il passato, è un mare abissale in cui non si ripesca mai a caso. La memoria, il darle nuovamente esistenza tramite la pagina, può farci capire noi stessi, il nostro qui e adesso. E forse può anche salvarci...

 

Il libro ha una narrazione particolare: una parte degli eventi è raccontata attraverso delle lettere. Perché hai scelto questo tipo di racconto?

 Quando scrivo non amo adattarmi a una struttura univoca. Così, per Il Morbo, per le particolari vicende che tratta, ho immaginato un cronista senza volto, ossequioso della verità, interessato solo a ricostruire quanto più fedelmente possibile persino le vicissitudini più marginali:

(…) le vicende di Lille Havn non sono che una pennellata o un ritocco invisibili nell’amplissimo affresco del Tempo. Ognuno – filosofi, avventurieri, principi, soldati, mercanti – ebbe altro da fare, altre cure a cui dedicarsi, altri racconti a cui prestar fede. Quest’angolino del nord, il suo dramma ed il suo splendore, passarono dunque sotto silenzio.

Fu un torto? Non tocca a noi dirlo. Forse non faremo altro che accrescere – ennesima insensatezza! – la fiumana di cronache redatte dagli Uomini per il loro terrore del Vuoto, del Nulla pronto a deglutire qualsiasi cosa non abbia, o non lasci, memorie.

Epperò... «splendore», s’è detto. Sì, anche nei fatti di Lille Havn, così remoti rispetto allo sfolgorio fastoso del resto d’Europa, vi fu uno splendore – non poté non esservi. Poiché siamo inclini a credere che non vi sia dramma inutile, accadimento fine a se stesso. E che in ogni recesso oscuro, persino sotto la pesante coltre di cenere dell’incendio più devastante, fermentino i germi del Sole imminente.

Ecco. Uno scrivano della realtà. Anche la più minuscola. E in che maniera avrebbe potuto, e dovuto, dar conto di quanto successo? Raccogliendo e collazionando testimonianze dirette, indirette; mettendo insieme ciò che egli stesso ascolta, vede, deduce; e riportando brani di diari, avvalendosi di lettere scritte dai protagonisti (e fra l’altro, quello epistolare è un genere propriamente settecentesco). Il Morbo, in questo modo, non è una storia “imposta” da un narratore onnisciente, superiore agli eventi. Con il medesimo rispetto, e timore, del cronista che redige il libro, io invito i lettori a ricostruire dentro se stessi le vicissitudini accostando frammento a frammento. Fino all’ultima visione – perché leggere è vedere – del veliero ancorato sulla linea dell’orizzonte...

 

Adelaïde Labille Guiard, Ritratto di giovane donna (già creduta Madame Roland),  1787, Quimper, Musée des Beaux Arts


Il Morbo è una storia di emozioni, prese di coscienza, timori, ambientata nel 1770. C'è un motivo particolare per cui hai scelto quel periodo storico?

 Come ho detto, il presente ha un cuore antico. Sono affascinato dal XVIII secolo che vedo come perfetta, persino inquietante, metafora del nostro tempo. Mi spiego meglio: il ’700 si contraddistingue come epoca di grandi speranze, aspettative, aperture, fiducia nel futuro. È l’età della Ragione, il Secolo dei Lumi, della fede nell’Uomo e nelle sue possibilità – che si ritengono illimitate. Anche sul piano sociale e politico fa scuola l’impulso degli enciclopedisti francesi – Diderot, d’Alembert, Voltaire ecc. –, sui troni d’Europa risplendono sovrani illuminati adoratori della Scienza che sembrano disporsi alle cure del popolo. Finché, mettendo a nudo le false apparenze, con l’illusione di bruciare per sempre parrucche incipriate e nèi finti, non divamperà il grande fuoco della Rivoluzione. E immediatamente, dopo l’incendio, il tradimento di tutto e di tutti. Il reinsediamento dell’Ancien Régime, la cancellazione delle conquiste e dei diritti appena ottenuti. La promessa, insomma, di quelle «magnifiche sorti e progressive», per dirla con Leopardi, è stata ben presto disattesa, infranta, negata. È un’umanità ancora vittima della prevaricazione, dell’irrazionalità, che ha dimenticato volontà d’essere e libertà, che è nuovamente drogata dal desiderio di emergere, di scintillare nel ballo in maschera con cui si ottunde instancabilmente. Scintillare come oro falso. E tanto le basta. Una metafora assoluta dei nostri giorni.

 

Stefano Valente


Storia, filosofia e misticismo si fondono in questo romanzo. Dove vuoi portare il lettore?

 

Molto lontano, spero. Potrei dire oltre quell’orizzonte sul quale il Vascello è come inchiodato. Il Vascello, per l’appunto. È un’immagine che si segna palesemente come un punto di non ritorno. Tuttavia, essa è anche il punto verso il quale si fissa poi lo sguardo dei vari protagonisti. Alla fine, ciascun personaggio otterrà la propria “visione” – la mettiamo fra virgolette – del Vascello, e dal Vascello trarrà pure le proprie risposte… Ma il Vascello è sicuramente anche un mostro, un Leviatano del passato e del nostro tempo. E forse è anche un archetipo in senso junghiano…

Eravamo là dentro, immobilizzati nostro malgrado, e allora mi è venuta alla mente un’altra fissità immobile: il Vascello. Pensavo a quando l’avrei finalmente potuto vedere – sempre che vi riuscissi, che fossi ancora in tempo, giacché i ghiacci avevano ormai liberato le onde, e il tratto di mare avanti alla baia molto presto sarebbe tornato navigabile.

Pensavo a questo, dunque, e notavo come il nostro ingresso a Lille Havn fosse stato contraddistinto dalla mancanza, dall’indefinitezza. Avevamo varcato la soglia d’un mondo vuoto, cieco e sordo, avaro di colori e di immagini, e addirittura di suoni e rumori. Erano questi gli strascichi, gli ultimi maligni effetti del morbo? La sua cicatrice indelebile? Poiché eravamo ad un passo dalle banchine e dai moli, ma potevamo solo immaginare lo sciabordio dell’acqua in mezzo agli scafi ancorati, o l’orizzonte interrotto dalle linee inclinate d’un bastimento-fantasma.

Fantasmi, sì, apparenze: indizi di forme che si tracciavano da sé sole, dentro le nostre menti. Non c’era altro a Lille Havn. Nulla oltre a sagome di cocchieri sotto la pioggia, a tetri contorni di porte cigolanti e di case mute. Nulla oltre l’idea dello sghembo profilo d’una nave alla fonda in alto mare che forse, di lì a poco, sarebbe scomparsa per sempre.

In definitiva, la scrittura per me è il tentativo di spingere chi legge fin sull’orlo del precipizio – là dove agiscono, vagano, sognano i protagonisti delle mie storie. Credo fermamente nel romanzo come un ordito di messaggi, di punti di vista, che possano portare a una conoscenza. Ma una conoscenza che io non sancisco mai in ciò che scrivo: lascio sempre aperta la possibilità a diversi piani di lettura.


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