L' IMPRONUNCIABILE Y
di Bruno Pompili
Mauro Poggi - Lorenzo Lorenzi, Alfabeto di lettere iniziali inventate (1750 circa)
Il problema non era nella gola ma negli occhi: un colpo di strabismo interveniva sempre, al momento di rivolgerle la parola, e questo gli attorcigliava la lingua: il nome di Yeildya poteva bloccare chiunque, se non era preparato al vulcano grigio del suo sguardo.
Una esagerazione, si può dire. Ma nessuno sfuggiva al blocco; solo gli indifferenti se la cavavano, loro sì perché o prevedevano le conseguenze generiche del dire o non capivano nulla della situazione, della rarità dell’incontro, dell’unicità del caso. Indifferenza colpevole, e stupidamente comune.
Altri, i più semplici, dicevano, abbreviando, Ildia, o anche Lidia.
Lailos si bloccava del tutto alla prima y. Inutile dirgli che doveva far conto che fosse una i; lui vedeva y dovunque: montagne di y, da scalare su un pendio sdrucciolevole, franoso, ghiacciato, aguzzo per ogni suola possibile.
Non avrebbe accettato mai di semplificarla, per rispetto, non avendo il coraggio di pensare affetto.
Yeildya apparteneva ad un altro alfabeto, non riducibile.
Yeildya guardava Lailos con attenzione, grata per il tentativo che si percepiva di volerla pronunciare integralmente, senza nulla perdere. Proprio mai era venuta a lui l’idea che fosse un tentativo inutile, né senza senso. Farlo per istinto.
Un suggerimento deve essergli nel tempo pervenuto, in qualche modo indefinibile, di arrivare alla fine del nome per gradi. Lo rifiutò perché Yeildya doveva essere completa in un solo respiro, mai l’avrebbe potuta frazionare.
Senza veramente capirlo lei gliene fu grata e si sentiva ricompensata di tanti pensieri inespressi.
Nella vita che le era data ogni giorno si accontentava di respiri fuggitivi e un poco troncanti, o di essere chiamata Dilia, che in qualche altra lingua vuol dire tramonto.
Un sogno senza contorni le restava in mente, e sempre con poca o minore importanza, quasi pronto a dissolversi ogni sera un poco di più.
La sera era sempre un lungo istante cupo, un momento di ombre lunghe perché arrivavano suoni inattesi dalle tensioni della giornata; faticava a riconoscere gli echi degli incontri, perché essi sempre si rassomigliavano; il tempo infine era di una sola nota indifferenziata.
Dopo i suoni si confondevano i ritmi, e allora capì che era il momento di preoccuparsi.
Si spense più rapidamente del suo pensarci sopra, avendo smesso di attendersi nomi e gridi totali, e non aveva più la forza di accontentarsi.
Vedeva spesso Lailos da lontano a biascicare suoni che malgrado la buona volontà non erano suoi, alla sua portata, nonostante sogni, ai quali mancava sempre la minaccia del risveglio per essere veramente vissuti.
Lailos apprese senza angoscia della fine di Yeildya, perché era stanco di attendersela.
Un giorno si era trovato in un crocchio di persone che ne parlavano; insomma parlavano della sua morte. Nessuno fece attenzione a lui anche quando chiese dove fosse sepolta, ma alla fine, dalle chiacchiere, venne fuori il luogo e il problema della pietra tombale che avrebbe un nome sbagliato; per alcuni era quello giusto: c’erano dei misteri nella sua vita e nel nome a causa di fughe e ritorni. In tutta la sua famiglia.
Lailos ci pensò a lungo e credeva di capire; molto probabilmente si sbagliava.
Come per caso, ma non è così, si trovò davanti al marmo inciso di quel tumulo di terra compressa, con basse erbe spontanee mai tagliate.
Se non fosse per una foto ceramicata e ben riconoscibile non avrebbe riconosciuto il nome che sapeva. Né il ricordo.
C’era davvero una lunga storia prima della morte, che rimbalza sull’incisione. Anna Lungdumm Minor, detta Huna «per quelli che l’amavano». Un foglietto appeso accanto era ancora leggibile: Hullya.
È in quel momento che Lailos gridò, sovrastando vialetti e il bosco: Yeildya.
Si formò un piccolo gruppo. Una spinta di solidarietà spontanea fra sconosciuti, presto dissolta con mezzi sorrisi.
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