LA "SCAPIGLIATA" ORA TACE
di Nene Ferrandi
Leonardo Da Vinci, La Scapigliata
China il capo con grazia, gli occhi immensi e verdi,
immutati nel tempo. Ti ascolta protesa con un solo orecchio, sempre indecisa
per quelle parole, ingoiate a bocconi, un po’ arruffate per tanti motivi che
non vuole o non sa dire. Una vita
spettinata da troppe emozioni forse, un dialogo desiderato, ma troncato spesso
da quel sentirsi inadeguata diventato poi solo ascolto. Una casa arruffata
senza un ordine funzionale, improvvisata dall’istinto del momento, la pulizia ignorata da tanto
tempo. Ma conoscendola da anni, puoi leggere speranze, delusioni, amori e un
declino inarrestabile. Il suo viso ricorda ancora la “Scapigliata” di Leonardo,
ma non lo sa. E non sa che i colori, i segni, di apparente follia, pennellati con passione su un vetro, , sono
pensieri, visioni di un immaginario che vuole ancora volare.
Aveva una fetta di salame in mano e una michetta, quando la
conobbi in una sera d’inverno, il buio di una enorme cantina tagliato dalla
luce di poche lampade, voci, tante voci,
per parlare di Gaudì e di Sartre e di Joan Baez non importa la logica, importa
discutere, bucare il soffitto di imprecazioni, abbracciare con voluttà la povertà
insieme. E poi cantare preferibilmente in milanese: un teatro di carne e di voglia
di divorare il tempo. Era un “covo” di
artisti di belle speranze, di visionari intelligenti, in zona Sant’Ambrogio .
Una comunità sempre uguale e sempre diversa che aveva fame di vita e di pane.
Una colletta risolveva l’emergenza con una fetta di mortadella che rendeva
tutti uguali, i sogni annegavano in un pudore bambino.
Luigi Mantovani, Sant'Ambrogio
La “Scapigliata” era molto di più di un soprannome, era un modo per regalare un fiore di distinzione
alla sua bellezza, quasi un inchino alla dolcezza incantata del suo viso. Dopo
un tempo tormentato in offerta nelle strade di periferia, Rodolfo l’aveva
rubata per sé ed era “bello, gratificante, quasi sublime essere la compagna di
un grande artista che dipingeva le formelle rotte delle vetrate nelle Chiese
gotiche, usando un metodo antico, incidendo con l’acido fluoridrico le immagini”,
spiegava.
Straziante e
devastante la morte di Rodolfo, i polmoni mangiati dal tumore, un progetto di vita spezzato, il buio.
Quella casa arruffata custodì le sue lacrime e il suo
silenzio, ma “No, non voglio tornare là” gridava a se stessa. Miracolosamente
divenne “materiale didattico vivente” , perché così era definita nella busta paga,
a Brera. Posava per gli studenti, fiera di avere un lavoro, i sogni gridavano
assordanti, ma non erano i suoi. Tormentava i capelli con nastri colorati,
tanti nastri per vestirsi di allegria, nelle lunghe ore, sempre immobile, una
statua senza volontà.
“Vieni – mi diceva – vieni a prendere un caffè” Gli spazi
nella sua casa non respiravano, cose
ammassate ovunque, la casualità diventata arte dell’improvvisazione: oggetti, foto, brandelli di carta con numeri
di telefono, collane vistose, rossetti non importa dove, l’abito “bello” usato
al funerale appeso alla finestra e i suoi vetri dipinti chiamavano i colori
dell’estate.
Mohamed apparve dopo una rissa in cortile, il gracchiare degli inquilini, una mano sanguinante ed era atletico, bello, giovane come l’amore. E poi
Giacomo Balla, La pazza
Un’arancia sulla tavola
il tuo vestito sul tappeto
e nel mio letto tu
dolce presente del presente
freschezza della notte
calore della mia vita. (Jacques Prevert)
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