NON CAPISCO, NON SO (DAGLI APPUNTI DI VERSUNO)

di Bruno Pompili


Nika Dzamiashvili, Sad Woman "I love you" (2019)



«Non me lo aspettavo. Non mi aspettavo niente di quel che è avvenuto. Non ne avevo neanche sentito parlare: di quelle cose che sempre si ascoltano, fra adulti, o ragazzi, o da amici. Spesso, per imbarazzo, mi tenevo riservato, sentivo, portavo in mente e imparavo. Niente tuttavia che aiutasse, o ancora oggi mi aiuti. Ma non posso credere che questo sia mai successo soltanto a me. È piuttosto che non si sa, o nessuno ha mai voluto dirlo. Io, poco, così così, ma non lo so. Adesso, forse, raccolgo appunti, ne scrivo: se mi possono aiutare. A capire.»



Angela l’ho vista una volta ed era come un chiodo. Subito inchiodata in mente, e dopo un po’ nel corpo.
Mi chiesi subito come avrei fatto a dirle il mio nome, un nome stupido, o pazzo, senza senso: Versuno. I miei non me lo avevano saputo spiegare, se non dicendo che l’impiegato del comune era ubriaco, o scemo, o pensava a un nome che gli piaceva ma gli veniva sempre male a scriverlo. Ce n’erano infatti di somiglianti, in giro; tutte vittime uguali, che avevano però fatto cambiare il loro, e noi non ci avevamo provato. Era un segno, che mi era rimasto sotto sotto, anche se finora non mi ero mai vergognato a dirlo. Con Angela mi trovavo in imbarazzo. Però il suo sorriso, quando lo sentì, mi tranquillizzò subito. Quasi non chiese spiegazioni, come tutti invece facevano. Questo me la inchiodò ancora di più. Era unica.
Quello che capisco ancora di meno fu perché ci mettemmo subito insieme, senza corteggiamento. Mi diceva di sì su tutto, sembrava convinta da sempre che saremmo stati insieme, un destino involontario e gradito; altre volte, con altre, avevo dovuto impegnarmi molto e non avevo ottenuto quasi niente. Per fortuna, mi dissi, così ero restato libero per Angela, in tutto e per tutto.
Si inchiodarono anche i nostri corpi, e la mente sempre di più. Fra di noi dicevamo giocando che eravamo predestinati, e il suo sorriso era una ferita di una dolcezza senza misura.
Le parole non ce le ho, per questo, non ci sono forse neanche, voglio dire per descrivere Angela: e non sarò così sciocco, non l’ho mai fatto e quasi neppure pensato, che il suo nome ci fosse apposta, scelto appositamente, per dire che era lei, proprio lei, quella! Lei era troppo, in tutto.
Ma se devo trovarle, delle parole, me ne dico di astratte: eleganza, sottigliezza, luminosità, slancio, destrezza, velocità, resistenza, e voce; altre, di concrete: solidità muscolare, capelli rossi delicati, occhi verdi, uno di un verde cupo, fondo, l’altro chiaro (e faceva notare la differenza con un sorriso senza passato), seni rotondi, alti e appena un accenno a scendere gonfiandosi, il ventre una vallata con ondulazioni, laghetti, colline scolpite, rilievi sui bordi come alture che si percorrono e poi si svolta su altri paesaggi, la catena della risalita verso la nuca, e il precipizio della gambe di Angela, le gambe del suo nome. Le mani, i piedi, come vele e come pioli, per il vento, per accompagnare i suoni, per essere certa che il pianeta resiste sotto il suo passo, ancorato al suo peso e che potrebbe altrimenti volar via, disperdersi.
Ho esagerato con le parole, sì, non ci pensavo; mi ha trascinato il fatto che mi martellano la memoria.
Ancora di più, ora, mi chiedo, sempre continuo a chiedermi, senza uno straccio di risposta, perché.
Perché ho trovato un’altra; forse l’ho cercata; sì, l’ho voluta; non riesco a spiegarmi, a darmi una luce.
Vivo ogni giorno con Angela, e le notti sono ancora brevi, sempre brevi. Ma un giorno il suo sorriso si è fissato per un istante in una incrinatura, una smagliatura dell’arazzo che la rappresenta. Penso che sia stato allora che l’ha capito: avevo cominciato a incontrarmi con un’altra. Non so se volevo e se voglia nasconderlo; per certo non potrei dirglielo, in nessun modo: non esiste un modo, solo un comportamento insensato.
Qui comincia il difficile: non so come registrare quel che vivo, o che penso, se ho un pensiero e non ne sono certo.
Le parole, non sono loro complicate, almeno non quanto la mia nuova situazione, del tutto reale debbo dire.
Mi aggrappo alla frase del mio vecchio amico, ora scomparso: «Le donne sono tutte belle». E non lo diceva per un risvolto di ironica volgarità, che è la prima cosa che penseresti. I suoi occhi le accoglievano con una benevolenza infinita. Ma io non c’entravo per niente nella sua filosofia, o nella sua religione, o nella sua poesia. Anzi, mi sentivo pesato, valutato, per una ristretta, limitata visione dei rapporti: perché avevo Angela, che gli amici mi invidiavano fino a far conto che non esistesse.
E io ci ho creduto. Che non esistesse. Ci sono cascato.
Per un tempo ho come fatto la prova, una sfida alla realtà: pensare che non ci fosse, che fosse una mia invenzione. Dopo tornavo a casa, o avevamo un appuntamento da qualche parte, e lei c’era.
Poi mi sono chiesto come sarei io se lei non ci fosse. E non mi sono sentito male. Dirò piuttosto che mi sono sentito bene.
Se è un caso, se il caso esiste, è stato in quel momento che ho visto Giuditta, e senza notarla; non so quando sia stata la prima volta, poiché era insignificante. Ma avendola incrociata casualmente più volte in diversi giorni, alla fine l’ho fissata, nel senso che ho registrato che esiste.
Il nome, quando l’ho saputo, sempre per caso, mi è piaciuto. E mi son detto subito che è l’unica cosa bella che ha.
Cosa ha fatto sì che mi incuriosissi, che guardassi dove svoltava, che strada faceva: poiché l’ho seguita con lo sguardo fin dove girava in un vicolo. Poi l’ho aspettata più in là; facile perché i suoi percorsi erano fissi. Nel vicolo spariva.
Sì, ci abitava. Ed era un luogo molto adatto alla sua persona: cupo e umido; le pietre dell’ingresso, un vecchio voltone, si consumavano e perdevano polvere rossa, che si accumula negli angoli, a terra, insieme agli insetticidi, o ai disinfettanti sopra il piscio dei cani.
Le finestre, aperte o chiuse sembravano finte, disegnate sul muro, anche qualche vaso di gerani malaticci.
Giuditta una volta si affacciò gridando contro qualcuno, che le rispose con un gesto maldestro, insomma offensivo. Fu allora che lei scoppiò a ridere sguaiatamente.
Mi piacque molto.
Cominciai a seguirla. Guardavo con curiosità i suoi glutei prominenti, che sembravano continuare lungo il dorso in un tronco senza incavature. Le cosce macinano la strada con un peso che rimbomba sulle grate delle cantine, o sull’acciottolato come zoccoli di cavalle da traino.
I capelli ispidi spuntano da un fazzoletto che non li trattiene. Polpacci e caviglie hanno un minimo di disegno. Poi ho visto i suoi occhi, una volta che si è voltata d’improvviso, per una qualche ragione sua. Occhi piccolissimi, a punta, come quelli di un sorcio; riparati dalla luce da grandi orecchie; gli zigomi erano più appariscenti di tutto il resto, ma non delle narici: due vortici. Gli zigomi, dicevo, due prominenze; sembrava anche che avesse una peluria rasata spesso.
Giuditta era così: solo il mio amico poteva, forse, apprezzarla. E io la seguivo ogni pomeriggio, fino a casa.
Lei mi affrontò con una voce eburnea, un latrato piuttosto. Ne rimasi non sorpreso, ma piuttosto confortato. Era tutto coerente in lei. Le dissi che non volevo infastidirla e lei si calmò.
Ma continuavo a seguirla, e continuava a chiedermi perché; non sapevo risponderle, e questo affievolì la sua aggressività da difesa.
Con circospezione cominciammo a parlarci, senza aver niente da dirci, e dopo alcune settimane mi fece salire a casa sua, lungo una scala più semidiroccata che fatiscente e instabile. La muffa era dominante, e la cucina puzzava di frittura accumulata.
Quando accettò di baciarmi, ebbi un primo ribrezzo. E fu l’ultimo. Da quel momento per una ragione che non so, e non me lo sono neppure chiesto, pur consapevole che non capivo, da quel momento i rapporti con Giuditta sono stati violenti, tempestosi, coinvolgenti, al limite di un disgusto che vuole sempre essere rinnovato. Non dirò altro sul suo corpo perché molte parole non conosco, che siano adeguate.
Una notte sono uscito di casa all’improvviso e sono andato da lei perché mi sembrava che mi chiamasse. Aprì, assonnata, e mi cacciò dicendomi cose che non voglio ricordare.
Al mio ritorno, Angela mi guardò come una domanda, che subito si spegne in un sorriso, e riuscimmo a dormire fino al mattino.
Cominciai a fantasticare di filtri, pozioni magiche, incantesimi, ma la volgarità di Giuditta era superiore a qualsiasi favola. Mi accorsi che mi infastidivano le campane, il canto dei galletti passeggiando in periferia, come per un risveglio malaugurato e fuori tempo.
La pelosità del suo corpo mi sembrava ormai una virtù belluina, perché poi Giuditta rantolava durante tutto l’accoppiamento, dall’inizio alla fine, più all’inizio che alla fine, eccetto qualche volta quando mandava un muggito finale, un raglio a volte appena controllato, che non dimenticavo per ore e ore.
Giuditta mi possedeva.
Angela sicuramente aveva capito qualcosa, ma era rassicurata dalla mia intensità; perché pensavo a Giuditta.
Le ho fatte incontrare, dando loro lo stesso appuntamento in un luogo preciso: potevo vederle senza essere visto, e allontanarmi. Ho chiesto scusa della mia assenza sui loro cellulari, protestando un intralcio irreale; se ne sono andate; le avevo messe lì e non si sono neppure guardate; non hanno avuto nessuna corrente interna che le spingesse a osservarsi. Io non ero dunque in loro. Ho capito così la mia inesistenza.
Le ho viste tanto uguali, indifferenti; inesistenti anche loro.
Quella sera, al momento opportuno in casa mia, ho detto di sentirmi male e ho dormito in salotto, prima sul divano, poi scivolando su di un tappeto; a terra mi sentivo meglio. Ho dormito così bene, così fondo, che Giuditta non aveva né spazio né senso. Il suo sapore di terra e sterco non mi piacevano più nel ricordo, che di solito mi portava a odorarmi le mani, che avevano traccia di lei.
Nella stanza accanto Angela si muoveva in modo strano, come per una angoscia, che somigliava a un erotismo; poi è venuta a sdraiarsi sul mio tappeto; e io sono andato nel suo letto, perché avevo freddo e lì c’era caldo. Lei non mi ha seguito, ed è stata l’ultima volta che ci siamo guardati come per fare domande. Non abbiamo parlato più, da mesi ormai, e ne so sempre di meno.
Giuditta non riesco neppure a pensarla, non c’è più. Passando per caso nella sua strada, mi hanno fatto schifo gli odori di baccalà nelle tinozze d’acqua ad ammorbidirsi, ma in generale da tutti gli androni viene troppo tanfo di muffa e fogne a secco.
Un’altra volta l’ho incontrata e abbiamo finto di non conoscerci; a casa è quasi peggio.
Angela ha detto che non se ne andrà mai, e non sarà mai lei a lasciarmi.
Ho risposto che non è necessario.
Non la infastidirò.
Continuerò a dormire sul tappeto, che mi piace.
Non mi chiederà neanche che sia io ad andarmene.
Sento sempre dei rumori, dal suo letto, e non m’importa se lo fa da sola, e non m’importerebbe se si portasse lì qualcuno.
Io poi sono crollato così di colpo nei miei desideri di sesso che non m’importa più niente di nessuna.
Angela è andata a fare un viaggio, spero che per qualche ragione non torni.
Dovrò trovare qualcuno per dire tutte queste cose, che però non mi pare abbiano una qualche importanza. Alla fin dei conti, per me, no; non ne hanno.
Giuditta è morta, davvero, per fatti suoi; pare che fosse ammalata.
Angela torna, forse. Se non sono morto io. O lei.
Proverò a dirlo. A farlo, piuttosto.
Scusatemi. Se poi ho sporcato.
Avrei dovuto averlo fatto già da prima. Prendere un treno, al volo, di notte, in campagna, è un passo abbastanza riservato. Invece della pistola. Se può andare. Non so.

Commenti

  1. Una lettura controversa, una storia alienante e sofferta. A tratti come per "Lo straniero" di Camus, Versuno è un astronauta del suo stesso vuoto: una creatura incapace di coscienza e di mettersi in relazione con gli elementi del suo mondo. Mi ha lasciato emozioni contrastanti e più di tutto un profondo senso di dramma umano. Ma anche di mistero, davanti al labirinto irrisolto delle sue scelte di vita. Interessante

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