IL TEMPO SCIVOLAVA PORTANDO CON Sé LA SUA ANIMA E LA SUA VITA

 racconto finalista del concorso Il Volo di Pegaso 2022/2023


di Nene Ferrandi



Bambino malato, 1889–93, Medardo Rosso, Galleria Nazionale, Roma.


Il tempo scivolava, trascinando l’anima, gli occhi, la parola, la volontà di Aldo e non potevo fermarlo e le supposizioni non davano informazioni certe e l’impotenza dilaniava i miei pensieri: la vita si ferma, annegata nei perché senza risposta.

Una storia lunga sei mesi e il raccontare annaspa nella cronologia, inciampa sui gradini degli avvenimenti, rimane l’ansia dolorosa.

 Si pensava alla stanchezza, al caldo, probabilmente le cause di quell’inizio improvviso di mosche nere volanti, la strada doppia, difficile seguire un rettilineo, la paura di chi guida l’auto “Zitta…speriamo di arrivare a casa..mi metto nella corsia a destra se ci riesco…ma che mi succede?”

Non era banale e neppure lo strappo di un momento critico, ma l’ingresso nel tunnel devastante della malattia.

Concitata, convulsa la reazione: subito l’oculista, poi l’ortottista dicono “Forse un problema neurologico..” ma chi poteva pensare….la normalità nel quotidiano era salva…mangiava con appetito..suonava il suo adorato contrabbasso…chiacchierava con gli amici del Torino che “forse quest’anno è la volta buona per andare in A,” rimpiangeva il lavoro, ma si sa..ad una certa età…

Aprile cantava timidi colori sbocciati, il cielo gridava di rondini in volo, un merlo pigro sotto il tiglio, nel cortile di casa, teatro di un’infanzia gioiosa. 

Un uomo barcolla, si aggrappa al muro, pochi passi e cade invocando il mio nome “Ti sta bene ubriacone” qualcuno dice “E’ Aldo - dice un amico - portiamolo in casa” E “Non sono ubriaco, ma non controllo le gambe, non mi reggono”. Baciavo le sue mani insanguinate, guardavo muta il suo pianto.

La musica intrecciava i pensieri, i gesti sorridenti, la piccola fisarmonica polverosa guardava e non osava ricordare, la casa ballava il jazz, le mosche, quelle mosche, si riproducevano senza vergogna, ma si poteva chiudere gli occhi… I pochi dischi incisi con la sua band tanto tempo fa, restituivano lo swing della sua voce, la carezza della melodia, il tentativo maldestro di rifare Ray Charles, Sinatra, idoli inimitabili. 


Arman, Accomulazione di tubetti e sassofono tagliato montato su tela riportato su tavola, cm 102×82


Il tempo, poco tempo, scivolava viscido, inclemente, cestinando nei rifiuti la capacità di vedere, di camminare. Perché?

Là, nel cortile i gatti randagi facevano l’amore, il suono di una tromba da una finestra, le campane della chiesa vicina, i sassi indisturbati dormivano.

Sì, ho pregato Dio, in quel cortile, nelle notti più inquiete, su un gradino sbriciolato, il fetore dei sacchi stracolmi di rifiuti.

Poi il  tempo parossistico di visite, analisi, due o tre risonanze magnetiche, subito alla Don Gnocchi per la riabilitazione e..non preoccuparti, vi accompagno io..siamo amici da cinquant’anni…vengo io per le punture, chiamami quando vuoi..al mattino se sei in ufficio ci sono io con la chitarra.. 

Nessuna diagnosi sicura, forse piccoli ictus al cervelletto...forse il diabete…ma il tempo precipitava nell’incubo. 

Una magia sospesa, in un mattino qualsiasi di pioggia insistente: Aldo cantava, un sussurro struggente, sfogliando la vita, Alex  alla chitarra, quasi un testamento

E ora la fine è vicina

E quindi affronto l’ultimo sipario

Amico mio, lo dirò chiaramente

Ti dico qual è la mia situazione, 

della quale sono certo

Ho vissuto una vita piena

Ho viaggiato su tutte le strade

Ma più. Molto più di questo

L’ho fatto a modo mio (My Way)


Inchiodato sulla carrozzella, lo sguardo buono, i pensieri già spettinati, guardava in quel cortile e si vedeva bambino perché con le biglie era un campione  e “mito” del quartiere nelle serate calde di promesse a cantare la bella Milano. 

Rileggeva la sua storia, ripassava la fatica della scuola serale dopo dieci ore di lavoro, quel lungo camminare per risparmiare il costo del tram, l’euforia delle serate con la sua band, le lezioni noiose di contrabbasso, l’acquisto di un basso come solo i Rolling Stone possedevano, gli applausi, quella musica…

Due corpi sfioravano e baciavano l’amore, quella sera, l’ultima prima del ricovero in ospedale. La sofferenza stava nel silenzio. Stretti per fermare il tempo. I suoi occhi verdi chiedevano perché, dilatati da una lacrima. Un sospiro di voce per cantare 

Sèmm conossuu coi temporai de settember;

se sèmm amaa con tanta nev in dicember.

Lenta e leggera,

quasi indecisa se vegnì ò nò,

la par sospesa

la bianca nev quand la vengiò.

La nèbbia, costòdia d’ovatta del nòster amor,

col sô l’è sparida, al so pòst

l’ha lassaa tanti fior. (“Amore in campagna” di Nino Rossi)

Era il settembre del 1982, in un piano bar in viale Ortles, amici in comune e tucc a cantà El barbun di Navili, E la vita l’è bela, Andava a Rogoredo…

L’alba guardava timidamente il sole, una nuova pagina da scrivere con rabbia, una speranza che non poteva morire

L’ambulanza arrivò puntuale “Non si preoccupi..tra venti minuti arriviamo..è tutto organizzato…ha preparato un corredo per la degenza?...”

“Non abbandonarmi…” “Aldo, vedrai, ti guariranno e io ci sarò sempre…”

Il tempo aveva fretta, arruffava i pensieri, il linguaggio, l’equilibrio di movimenti, ma io c’ero, mangiava, dormiva, a volte rideva solo con me, seduto, un sacco di dolore, mi avevano spiegato, senza volontà. 

“Aldo, ti ho portato TuttoSport.. il Torino ha vinto i playoff.. torna in A…”, ma gli occhi erano muti

“Aldo c’è un gruppo che suona nella sala ricreazione… andiamo” e miracolosamente un piede batteva il tempo.

Quel silenzio pareva implorasse “Non chiedermi niente, non so”

Vivevano di sussulti, quasi una danza ossessiva, le mani ad inseguire mosche dispettose inesistenti, in perpetuo movimento, senza controllo.

Il profumo dell’aria rubava alle margherite e ai fiordalisi le promesse della primavera, nel piccolo prato interno, davanti a una piccola chiesa a cui offrire  ogni giorno la mia anima bruciata dall’ansia.

La sentenza dopo quaranta giorni “Demenza senile…non migliora neppure nella deambulazione nonostante gli esercizi..forse dobbiamo spostarlo in un altro reparto specifico”

Rabbia. Ribellione. Dolore. Un vuoto di paura. Una nuova forza per non arrendersi. Una disperata ricerca per una verità inequivocabile. La decisione: un consulto con l’Istituto Besta.

L’aria era immobile, in attesa, vibrava la silenziosa operosità dei medici, l’efficienza scandiva le ore, la delicata sensibilità degli infermieri “Ma lei può stare quanto vuole..non ci sono orari fissati…venga ad accarezzargli la mano, quando devo fargli la punturina per il diabete…mi chiami per qualsiasi reazione o necessità…”

Seduta accanto al letto, cercavo il suo cuore con un bacio, leggevo il precipizio  della sua anima, chiedevo la vita. Il tempo giocava con un raggio di sole insistente che illuminava una stanza ovattata di tepore e rispose ai tanti dubbi con una condanna.

La diagnosi del Besta fu ultimativa: Creutzfel Jakob sporadica. 

Che valore ha ora il tempo? Il trionfo dei fiori dell’estate, il sole, le stelle, la musica, la cassoeula, gli amici, i tramonti? Nessuna cura per quel diavolo di malattia, troppo rara per i ricercatori scientifici, troppo complessa per capire quando e come bussa alla porta senza chiedere permesso e…spiegavano, chiarivano le modalità di sviluppo…io capii in modo elementare che nel cervello c’è una proteina infettiva di nome Prione che “mangia” le cellule con avidità preposte a comandare le funzioni vitali dell’uomo. Ma a che serve capire?




Pablo Picasso, Fisarmonicista (1911)


Quella suonavo, perché solo quella sapevo suona “O mia bela Madunina che te brillet de lontan..” e la piccola fisarmonica si era arresa tra le mie mani incerte.. Mi parve.. no, ne sono certa, sorridesse.

Il tamburo della burocrazia, la documentazione al Ministero della Salute, la vestizione, le candele spettrali, i fiori che puzzavano di morte…ma che ha fatto l’uomo per guarire quella malattia e salvare la sua vita? Eppure il diritto alla vita va difeso, sempre 

Lo strazio non ha colori e canto, ma è una guerra sanguinosa di sentimenti, di impotenza, di urla, di ricordi. Lo strazio è profondamente egoista e il tempo, molto tempo, sta seduto a guardare, quasi irridente. 

L’ingiustizia ha campi immensi di fiori, mangiati dalla terra, nel silenzio colpevole dell’uomo

Ho voluto un marmo verde come i suoi occhi per custodire il suo ultimo viaggio. In pace.

Commenti

Post più popolari