PAURA DELLA VITA

 

di Nene Ferrandi




American School, 19th Century Portrait of a Lady in a Rose-colored Coat


30 giugno 1960. Il respiro sospeso, quasi un’attesa. Il viso assorto nella dolcezza di uno sguardo timido e curioso. Sulla strada la monotonia di una folla senz’anima, così appariva a Giorgia quel via vai frettoloso di anonimi pagliacci, ogni sera, quando gli uffici esigono il silenzio per dormire. 

L’albero, quell’albero, nudo, rugoso, le mani protese verso il cielo, invocava da anni la vita di foglie ridenti accarezzate dal vento. Un amico, un confessore per le tante illusioni di speranza. 

Diciotto anni, è il momento di lasciare il collegio, sola, il tempo trascinato con fatica, ora solo mani nude per difendersi e aggredire il mondo, rubare le farfalle sognate, al braccio di un angelo d’oro. Chi avrebbe potuto respingere, rifiutare le ali di un angelo? Ma quel gomitolo ruvido intriso di dolore, di rinunce non sapeva ballare la gioia dei fiori.. non aveva imparato… e gonfiava un cuore di paura e domande.

L’ultima sera, ma chi voleva la vita, quella vita, pensava…

“Tuttavia, quando la tristezza di vivere,

poiché la vita non è voluta,

ritorna nell’ora dei sogni,

col senso della sua freddezza,

improvvisamente ciascuno ricorda –

risplendente come la luna nuova

dove il sogno-vita diventa cenere –

la melodia del violinista pazzo.” (Pessoa)


Raccontava a se stessa “Schiaffi di risate…ancora…sì ancora nei miei ricordi…rimbalzavano sui gradini austeri delle scale, giocavano con palle invisibili di pensieri, di commiserazione, di emarginazione. Ghigni di irrisione per quell’abito grigio informe, distintivo di un abbandono alla carità che faceva urlare la mia anima. Era un tempo senza ore, così ripetitivo, così uguale.. una carezza lieve quando il sonno dava il riposo a quell’ansia nascosta che mi feriva. Eravamo in quattro orfane, accolte in un collegio di cento bambini, per studiare…perché così le famiglie abbienti negli anni cinquanta usavano fare; forse nella mia condizione, era un privilegio, non so…

Una mantellina rosa apparve come una farfalla, sullo scalone livido e antico e una bimba impaurita piangeva a singhiozzi senza pudore; non voleva stare in quel tugurio dove la luce sapeva solo creare ombre di silenzio. Fu un colpo di fulmine, inconsapevole come l’amore e raccontare e raccontarsi diventava una strada senza fine di emozioni vibranti, di malinconie liquide di pianti. Guardavamo un ciliegio in fiore, unico nel cortile sassoso, lampi sorridenti di luce bianca, aspettando la morbidezza dolce delle ciliegie. Spiavo, la domenica, l’allegria arruffata di sua madre in visita in quel parlatorio vivo di voci e tenerezza. Pensavo e sentivo carezze immaginarie, baci infiniti. Mi propose un gioco “Sai che le farfalle vanno alla scuola del sorriso per asciugare le nostre lacrime, la sera..e sono leggere ..un soffio…il bacio della mamma che non c’è e poi volano in cielo per suggerire agli angeli i sogni più belli?” Una fiaba raccontata dalla sua mamma per allontanare il vuoto dell’assenza. Diventava per me l’esaltazione di una presenza mai vista, ma sognata tra i colori del desiderio. Avevo imparato a suonare il violino per una predisposizione innata, dicevano, e Lia giocava con il pianoforte, per passare il tempo o forse per continuare un dialogo quasi metafisico di voli, di emozioni e a volte di rimpianto e di rabbia. Un tappeto di musica, anime vibranti. Suoni di nuvole. Storia di un’amicizia. Momenti di leggerezza, di complicità, di piccole trasgressioni. Un mondo.  Le incursioni segrete nella grande cucina per rubare gli spinaci, leggere Tolstoy sotto le lenzuola con una pallida pila…cogliere  furtivamente le fragole in cortile, spiare dalla finestra di uno stanzone all’ultimo piano un ragazzo bello come un dio greco, parlare di sogni avventurosi con il gattino bianco, fumare una sigaretta in uno squallido gabinetto con la finestra rigorosamente spalancata… Sì il mio mondo, il riverbero di un calore intermittente, in una realtà da scrivere quotidianamente, se possibile, ma mio… con le vibrazioni orgogliose e dolenti delle note dell’Adagio di Albinoni”.

Notte del 30 giugno 1960. L’ultima notte nel buio sacrale di un dormitorio senza rumori, senza voci. Il buio modulava fantasie di vite sconosciute, visi indifferenti, mostri vaganti, ghigni di irrisione, incontri diabolici e quegli schiaffi di risate… occhi a graffiare il cervello..il tonfo di porte chiuse, finestre aride.. Il buio parlava di rifiuto, di isolamento e abbandono. Il panico che immobilizza la volontà…Il sole inabissato, senza vita. Il buio ovunque ad annegare i fiori, la musica…E il disagio diventava incubo per quella libertà obbligata, un diavolo dagli occhi rossi che inganna, tradisce, lacera i sogni. Sentire di essere una nullità come un vortice di tempesta…chi avrebbe potuto prendere la sua mano… sfogliare, arare il suo cuore con i semi di una lenta rinascita? Se quel buio potesse profumare di pace…

Una litania insinuante

“Che cos’è morire, se non stare nudi nel vento e disciogliersi al sole? 

E che cos’è emettere l’estremo respiro se non liberarlo dal suo incessante fluire, così che possa risorgere e spaziare libero alla ricerca di Dio?” (Kahlil Gibran)

Una notte per bruciare la luna e le stelle, soffocata da un silenzio imperioso, sola sul ramo ossessivo del tempo…

Il suicidio

1 luglio 1960. Sembrava dormisse abbracciando una mantellina rosa, ma il respiro era nel regno degli angeli, farfalle squillanti di colori vegliavano sul davanzale della finestra, una ciotola di fragole, fiori di ciliegio abbandonati sul letto, il violino non capiva, in attesa…

Commenti

Posta un commento

Post più popolari