UN RICORDO IN REGALO

di Francesco Randazzo



Davide Cambria, Non contare le battaglie pensando alle rovine



Non ci furono rintocchi d’orologio, erano tutti fermi da tempo, né un calendario che segnava il giorno particolare della ricorrenza, ormai si seguiva soltanto la scansione giorno notte in successione indistinta, né le stagioni avevano date precise d’inizio, se ne sentiva l’arrivo dal calore, dal freddo, dagli odori e dai colori del cielo e della natura. Il padre però seppe che quel giorno era il compleanno di suo figlio, non sappiamo come, ma ne fu certo, svegliandosi quel mattino nella luce tersa di un autunno mite, profumato di malinconie sfumate che coloravano di rossiccio e ocra il bosco davanti al palazzo dove vivevano. Uno dei pochi ancora abitabile, piuttosto deteriorato dalla mancanza di manutenzione per più di cinquant’anni e dal passaggio d’inquilini provvisori che avevano vandalizzato come parassiti ogni spazio, ogni cosa, delle abitazioni in cui erano vissuti temporaneamente senza preoccuparsi di chi sarebbe venuto ad abitare là dopo di loro. Tutto sommato però, l’edificio s’era conservato piuttosto bene e con qualche aggiustamento erano riusciti a ripristinare un appartamento più che confortevole, visti i tempi, e s’erano fermati, nella speranza di poter fondare la loro vita di fuggiaschi in un luogo sicuro.

Quella mattina, svegliandosi, aveva sentito che la luce, invadendo la stanza quasi come fosse un onda di calore benevolo, gli dicesse che quel giorno sarebbe stato speciale e lui avrebbe dovuto renderlo unico per suo figlio. Lo guardò, ancora addormentato, con il corpo rilassato in una posizione contorta che solo i ragazzini possono assumere nel sonno, la testa reclinata sul cuscino sdrucito ma accogliente, sul viso quell’espressione pura dei fanciulli che sognano, sulle labbra un sorriso disarmante, di fiducia e speranza, sereno e sicuro nel suo nido di riposo e fantasie sognate. 
Lo guardò e nel petto gli crebbe tutta l’enormità d’esistere per lui, con lui, oltre sé stesso. Trattenne un singhiozzo di commozione, sorrise e accarezzò suo figlio, sui capelli e su una guancia. Il figlio aprì gli occhi e lo guardò, senza dire nulla, sospeso tra il sonno e la veglia, stirò braccia e gambe in un modo buffo e infine disse: «Ciao, papà.» 
Il padre ascoltò quel saluto, come fosse un lungo discorso, la dichiarazione di una fiducia illimitata, che risuonò dentro di lui con forza contagiosa. «Ciao, figlio.», gli rispose. E il ragazzo sentì quella forza ritornare a lui, dalla voce, dagli occhi e dal sorriso di suo padre, si drizzò a sedere e lo abbracciò.


 Camminavano sulla strada dall’asfalto sbreccato, dal quale spuntavano piante selvatiche, persino cespugli; il ragazzo stringeva la mano di suo padre, con fiducia ma anche un poco di timore, perché non s’erano mai allontanati così tanto, mai s’erano avvicinati tanto al bosco. Ma la stretta forte di suo padre lo rassicurava. Era una giornata tersa e calda, quasi primaverile sebbene fosse già autunno inoltrato.
 «Papà, dove stiamo andando?» 
«Andiamo a festeggiare!» 
«Cosa?» 
«Il tuo compleanno, figlio mio, il tuo compleanno!» 
«Il mio compleanno?» 
«Sì, vedrai. Ho una sorpresa per te.» 
«Ma una volta mi hai detto che ero nato in primavera...» 
«Infatti, è così, vedi? Guarda che sole, che luce, che calore, non ti sembra che sia primavera?» «Sembra, ma...» 
«Ma, ma, ma! Non essere pignolo, figlio. Il tempo è un’illusione, un trucco degli uomini per misurare il tempo e i loro limiti. La natura ci smentisce sempre, infatti oggi, anche se saremmo in autunno, è primavera. E sai perché?»
 «No, perché?» 
«Perché qualcuno lassù ha deciso che oggi è il tuo compleanno, e bisogna festeggiarti, figlio, sei grande ormai ed è arrivato il momento che io ti regali qualcosa di molto bello, molto importante, qualcosa che ti stupirà e, se vorrai, potrà cambiare la tua vita.» 
«Un po’ mi fa paura, papà… Che cos’è?» 
«Non posso dirtelo adesso. Dobbiamo andare, vedrai.»  
«Papà, stiamo andando verso il bosco, è pericoloso. Me l’hai sempre detto tu che non dovevamo avvicinarci, ma adesso...» 
«Adesso è arrivato il momento di entrarci e attraversarlo. Sei grande e insieme possiamo farlo. Ogni giovane deve attraversare il suo bosco, vincere le sue paure e uscirne più forte, pronto ad affrontare la sua vita da adulto.» 
Il figlio rise. 
«Ma pa’, io non sono mica adulto ancora!» 
«Che ridi, scemotto, sei più grande di quanto pensi!» 
«Sono solo a tre mani da cinque dita, mi avevi detto che per essere grande ce ne vogliono quattro!» 
«Quello è il punto d’arrivo, ma stai già andando verso quello che poi sarai, c’è già un adulto dentro di te, che deve capire come venir fuori ed essere quel che è davvero.»
 «Oggi sei strano, papà!»
 «E non sei contento?» 
«Che sei strano?» 
«Eh.» 
«Sei forte quando sei strano, mi piace.» 
«Se ti piace, forse forse sei un po’ strano anche tu!» 
Risero insieme, si fecero un po’ di smorfie scherzose e proseguirono verso il bosco che li aspettava, oscuro e luminoso come una cattedrale gotica.

 Camminavano con cautela, tastando spesso il terreno o evitando alberi caduti o frammenti di rovine, perché i sentieri d’una volta erano stati cancellati dalla vegetazione che era avanzata rigogliosa e aveva invaso tutto. Scimmie e pappagalli spiavano quei due esseri mai visti con curiosità e circospezione. Ogni tanto tra le cime di qualche albero intravedevano il collo e la testa di qualche giraffa che mangiava le foglie, senza far caso a loro due. Il laghetto pullulava di vita: piccoli ippopotami nani sguazzavano placidamente, antilopi, bufali e cervi s’abbeveravano, tre elefanti bevevano e si spruzzavano acqua con le proboscidi, alcune iene e qualche ghepardo si  aggiravano circospetti, in cielo volteggiavano falchi, aironi e aquile che ogni tanto si tuffavano in picchiata per ghermire un pesce o qualche piccolo roditore che nuotava ignaro del pericolo. 
Il ragazzo sgranava gli occhi, affascinato da tutta la vita brulicante di quegli esseri fantastici che non aveva mai visto davvero.
 «Papà, è come in quel libro che ho visto quando ero più piccolo, l’Atlante degli Animali, esistono, esistono davvero!» 
«Certo che esistono. Anche se non tutti dovrebbero stare qui.» 
«Sono bellissimi. Perché non dovrebbero?» 
«Vengono da posti molto lontani, erano stati catturati e portati qui. In un posto che si chiamava zoo, o meglio bioparco come lo chiamavano per pulirsi la coscienza.» 
«Ma chi?» 
«Gli esseri umani, come me e te.»
 «Perché li portavano qui?» 
«Per poterli vedere. Si pagava un biglietto e si potevano vedere animali di tutti i continenti.» 
«Che bello!» 
«Per loro mica tanto, li tenevano chiusi dentro gabbie, recinti, fossati invalicabili, erano prigionieri insomma. S’intristivano, a volte così tanto da morirne.» 
«Ma adesso sono liberi!» 
«Sì. Dobbiamo stare attenti però. Sono animali selvatici, alcuni predatori che cacciano per mangiare.» 
«Potrebbero mangiarci?» 
«Potrebbero. Speriamo di no. Stammi vicino, camminiamo con cautela e ricordati, in caso di pericolo non correre mai, per loro è il segnale che la caccia è iniziata.» 
«Va bene, pa’, ma dove stiamo andando?» 
«In un posto bellissimo.» 
«Come quello?» 
Il ragazzo indicò una palazzina diroccata, semi nascosta dalla vegetazione. Molte mura erano semi cadute, in molte finestre gli alberi avevano insinuato i rami che entravano e seguendo circonvoluzioni contorte  rispuntavano da brecce della pietra o da altre finestre o addirittura da squarci sul tetto di tegole in rovina. Si avvicinarono e seguendo il perimetro delle mura si ritrovarono da un lato esteso, interamente crollato, aperto e visibile. Tra pietre e calcinacci, travi spezzate e frammenti di vetro, spiccavano figure bianchissime che sembravano apparizioni di un sogno antichissimo. 
«Guarda papà, ci sono delle persone immobili, tutte bianche! Quella signora là, tutta sdraiata, sembra che ci stia guardando! Chi è?» 
Il padre rise e arruffò con la mano i capelli del figlio. 
«Non sono persone, sono statue di marmo, le scolpivano gli artisti per ricordare le persone importanti o per rappresentare leggende antiche. Quella signora, come la chiami tu, è Paolina Borghese, la sorella di Napoleone Bonaparte, un grande imperatore. Lei aveva sposato un principe ed era venuta a vivere qua, era ricca e potente, così uno scultore famoso, Antonio Canova, scolpì quella statua bellissima.» 
«Però è tutto in rovina, tanto ricca forse non era.» 
«Ricchissima, cioè lo era suo marito, il principe Camillo Borghese, era tutto suo questo bosco.» 
«Ma che se ne faceva di un bosco?» 
«Secoli fa non era un bosco, era una villa della famiglia Borghese infatti, così si chiamava, poi era diventata un parco aperto a tutti, la galleria delle statue e lo zoo, gli altri edifici, potevano essere visitati da tutti.» 
«Che figata pa’! Questa passeggiata è il più bel regalo della mia vita!» 
«Eh, vedrai, la cosa più bella deve ancora venire, stiamo andando là, vedrai...» 
Il ragazzo agitò la mano in aria per salutare la signora della statua e seguitarono a camminare. 

Sembrava che li stesse aspettando. Quando lo videro si fermarono. Li guardava fisso, col capo ben eretto, il corpo fiero, la criniera folta. 
«Stai fermo, non ti muovere, non scappare, non correre.», disse sottovoce il padre. 
«È pericoloso, vero pa’?» 
«Sì, è un leone, è un predatore, ma forse ha già mangiato, forse è vecchio e stanco.»  
«Speriamo che abbia mangiato, tanto vecchio non mi pare, pa’.» 

Quasi li avesse sentiti dubitare della sua forza, il leone scosse il capo ed emise un ruggito. Il padre strinse forte la mano al ragazzo. Non si mossero. Ci fu un silenzio che sembrò loro lunghissimo. Anche gli uccelli e le scimmie sugli alberi si erano zittiti. Poi il leone si voltò e prese camminare. Padre e figlio rimasero fermi. Il leone si fermò e voltò la testa verso di loro, la scrollò muovendo la criniera e riprese ad andare. 
«Sembra voglia che lo seguiamo...», disse il ragazzo, che nonostante la paura era affascinato da quell’animale maestoso. 
«Chissà, forse...», rispose il padre 
«Sta andando nella direzione in cui dovremmo andare noi. Come se c’avesse aspettato.» 
«Che facciamo papà, andiamo anche noi?» 
E gli andarono dietro. 
Dopo un po’ che camminavano, videro l’edificio. Il leone si volse ancora una volta a guardarli, poi si mise a correre e in poche zampate raggiunse la costruzione e attraversando lo spazio aperto di un muro crollato, entrò e scomparve alla loro vista. 
«Sembra una torta tutta rotta. Che cos’è, papà?» 
«Era un teatro.» 
«Un teatro… che vuol dire teatro, pa’?» 
«Entriamo, ti faccio vedere.» 
«No, no, ho paura, c’è il leone là dentro!» 
«Non avere paura, se avesse voluto mangiarci, l’avrebbe già fatto. Entriamo, su.» 
«Sei sicuro, pa’?» 
«Sì, sono sicuro. Andiamo.», mentì il padre, ed entrarono. 

«Puoi toglierti la mascherina, figlio. Guarda!» Se le tolsero e respirarono a pieni polmoni, con un sollievo liberatorio. 
Le panche di legno erano ormai semidistrutte dalle intemperie o avvolte da cespugli ed erbacce, le gallerie sembravano balconi carichi di rampicanti,  qualcuno secco, molti rigogliosi, alcuni persino fioriti di bouganville, magenta, rosa, arancione, rosso. Il palcoscenico sembrava un trionfo barocco, la scenografia di un dramma pastorale, con le colonne ricoperte di foglie e rami intrecciati, il pavimento era ricoperto di muschio e il balcone interno ancora coperto da un drappo dorato brillava spiccando agli occhi del padre e del figlio che osservavano quella meraviglia, quasi come un sogno, antico e perduto per l’uomo, nuovissimo ed entusiasmante per il ragazzo. 
«Caspita, pa’, è pazzesco ‘sto posto!» 
«Ti piace?» 
«È bellissimo, sembra di stare dentro una storia, come una di quelle che mi racconti tu.» 
«Per questo ho voluto portarti qui, questo è il posto dove nascevano e si rappresentavano tutte le storie del mondo.» 
«Tutte?» 
«Tutte. Beh, non tutte insieme, una alla volta… moltissime.» 
«Come quelle che mi hai raccontato tu? La storia del principe indeciso Amleto, quella di Antigone testarda, le avventure del Dottor Faust che non voleva invecchiare e la mia preferita, quella di Peter Pan!» 
«Tutte le storie che ti ho raccontato e molte altre, tantissime.» 
«Accipicchia! E come facevano?» 
«Qualcuno scriveva le storie, gli attori le imparavano a memoria, si vestivano come i personaggi e recitavano davanti al pubblico che veniva qua e si sedeva su queste panche o su quelle nelle gallerie. Si stava tutti in silenzio, mentre la rappresentazione prendeva vita sul palco come una magia che accomunava tutti, si piangeva e si rideva insieme, ci si meravigliava insieme, ci si indignava insieme, e il tempo si sospendeva, diventava un altro, ci credevi, volevi crederci ed era un’esperienza straordinaria.» 
«Pa’ ma tu l’hai visto o stai immaginando tutto come al solito, con tutte quelle cose che t’inventi per me? Sono grande ora, sai? Lo hai detto anche tu.» 
«No, non l’ho visto veramente. Sono venuto qua con mio padre quando avevo la tua età e lui mi ha mostrato questo posto, mi ha raccontato le stesse cose che sto dicendo a te.» 
«E se anche il nonno si fosse inventato tutto?»  
«Non credo, lui l’aveva visto davvero il teatro, quando era aperto, quando era pieno di vita, di persone, di emozioni pulsanti!» 
«Era vecchio il nonno...» 
«Adesso sarebbe vecchissimo, ma allora non lo era e prima che nascessi io era stato giovane, sai? Era un attore! Aveva recitato la parte di tanti personaggi e conosceva una quantità enorme di storie, tutte quelle che ti ho raccontato me le ha insegnate lui, ma ne sapeva molte di più, era straordinario starlo ad ascoltare.» 
«Anche tu non sei male, papà. Mi piacciono le tue storie e come me le racconti. Sei buffo quando mi vuoi fare ridere, quando fai il cattivo mi fai davvero paura e quando sei qualcuno che soffre mi fai piangere. Secondo me sei bravo come il nonno.»
 «Ma non ho mai vissuto tutto questo con gli altri, con il pubblico, tante persone che respirano, ridono o piangono insieme a te.» 
«E io? Sono io il tuo pubblico.» 
«È vero, hai ragione, ma non è la stessa cosa.» 
«Tutte le panche qui e nelle gallerie, piene di persone?» 
«Eh, sì. Tutto pieno di gente.» 
«Ma non avevano paura?» 
«No figlio, non avevano paura. Poi c’è stata la pandemia, il virus, i contagi… solo allora hanno comiciato ad avere paura. Ma qui, stranamente, le persone si sentivano al sicuro.» 
«Dev’essere stato bellissimo.» 
«Lo era. Ma poi chiusero tutti i teatri. Le persone rimasero senza sogni, senza fantasia, sole con le loro paure, diffidenti, isolate.» 
«Come adesso?» 
«Come adesso.» 
«Grazie papà.» 
«Di cosa?» 
«D’avermi portato qui, mi sento dentro una magia.»
 «Lo avevo promesso a tuo nonno e tu dovrai promettermi che farai lo stesso con tuo figlio quando sarai grande e una donna ti sceglierà per essere padre.»  
«Te lo prometto, papà!», esclamò il figlio, abbracciando il padre con trasporto. Rimasero fermi, stretti l’uno all’altro, in silenzio. Quando si sciolsero dall’abbraccio, il ragazzo, con gli occhi lucidi ma un gran sorriso sul volto, disse: 
«Non potrò farlo se non vedo come si fa, papà! Sali là sopra e recita per me. Io mi siedo qui e sarò il tuo pubblico, uno solo, ma tu immaginati di vedermi seduto su tutte le panche, qui sotto, là sopra, tutto intorno! Dai, papà!» 
Il padre rise, gli prese la testa tra le mani e lo baciò. 
«Va bene, figlio, cosa vuoi che reciti, quale storia, quale personaggio preferisci?» 
Disse, mentre saliva sul palcoscenico e si piazzava nel mezzo della scena, sentendosi invadere da un entusiamo e una forza che lo sopraffacevano.
 «Non lo so, pa’! È troppo difficile scegliere, quello che vuoi tu, ricorda, inventa, come hai sempre fatto a casa, ma qui di più, di più!» 
«Qui è tutto di più.», pensò il padre ed emise un gran sospiro di gratitudine, per suo figlio, per suo padre, per tutto quello che s’era perduto ma ancora viveva in lui e avrebbe continuato a vivere nel suo ragazzo. 
Dal balcone interno al palcoscenico, richiamato dalle voci dei due umani, s’affacciò il leone, ma non era solo, dopo di lui spuntarono una leonessa e tre cuccioli curiosi. Restarono là, silenziosi, come se attendessero anche loro qualche straordinario avvenimento. 
E l’uomo cominciò a recitare.

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