RACCONTO MIGRANTE: ERA UN SOGNO
di Nene Ferrandi
Un colloquio d’amore, senza testimoni, il sospiro lieve di un’anima tragicamente ferita, ma viva e complice di un’estasi appassionata che non può appassire. Mohamed, al tramonto del sole siede accanto alla tomba di Stella raccontando il giorno, la fatica, ogni sera, con pudore, con rabbia e poi rassegnazione. Deve ascoltare il silenzio delle risposte che solo l’anima di Stella può dare e sussurra parole sentite o forse imparate, quasi una preghiera: Ancora…
” Tienimi per mano al tramonto, quando la luce del giorno si spegne e l’oscurità fa scivolare il suo drappo di stelle…
Tienila stretta quando non riesco a viverlo questo mondo imperfetto…
Tienimi per mano…
portami dove il tempo non esiste…
Tienila stretta nel difficile vivere.
Tienimi per mano…
nei giorni in cui mi sento disorientato…
cantami la canzone delle stelle dolce cantilena di voci respirate…
Tienimi per mano e non lasciarmi andare…
mai…
(Herman Hesse)
“Posso?” Due anni fa un ragazzo incerto, intimidito bussava alla porta della sede di un’associazione di volontariato “Vorrei imparare l’italiano, senza fare errori” Un’attività della onlus due volte alla settimana per permettere di perfezionare la lingua offerta agli stranieri. Un insegnamento senza grandi pretese, un dialogo per comporre correttamente le frasi, la declinazione dei verbi, la proprietà degli aggettivi, ma frequentato da badanti, infermieri, operai. Quel ragazzo testimoniava disagio, ma fiducia con un sorriso largo e buono. Improprio chiedere il perché, il come: ognuno aveva le sue ragioni, la sua storia e un sogno
“Come posso ricompensarvi? Potrei lavare i vetri, fare le pulizie..” Si intuiva umiltà, sensibilità, generosità
I graffi del cuore volutamente annegati nel Mediterraneo, cicatrizzati dalla volontà, oggi fiori di speranza.
“Vi racconterò il mio tempo, senza lacrime, ieri impazzite di disperazione e rabbia, oggi di gioia e commozione. La mano di mio padre ogni mattina mi portava a scuola…dieci lunghi chilometri, il parlare complice, l’affanno per il ritardo, una strada pietrosa…e la meraviglia muta di un’aurora pallida, in attesa. Un’infanzia povera come tante. Ascoltavo gli uccelli cantare e correvo sempre più veloce, unendo il mio canto al loro. Il mare d’oro del tramonto sembrava sciogliere le nuvole. I colori dell’Africa violenti di vita, nel dolce abbandono della natura. Mio padre morì, avevo sedici anni e mi aveva regalato l’amore per la poesia e un piccolo libro del poeta Leopold Sédar Senghor
“ Questo nostro tempo
rode il midollo del muscolo del dolore
gonfia il cuore di amarezza con pose incuranti
e fa della giustizia una opportunità…”
Mia madre ripeteva “Vai in Italia, sogna un futuro” E camminare, attraversare paesi ostili, con due magliette e tre mutande in un sacchetto… il sole declinava il tempo, la determinazione mi proteggeva. In Libia imparai a non avere paura” In Libia i rifugiati venivano trattati in modo disumano: imprigionati, vessati dai trafficanti, attaccati e derubati da bande criminali. Sul barcone conobbi un amico, un disperato con cui ridere o piangere, arrampicati a un sogno senza radici, ma l’orizzonte cantava le sue promesse. In Italia solo una volta girai lo sguardo e salutai la mia Africa, mia madre.”
“Basso era il cielo
nei meandri del mio cuore
Ed i fiori e le strade
Piangenti riprendevano a cantare in coro”
(Leopold PindyMamonsono)
Fortunatamente i due amici minori, soli, non accompagnati, sono riusciti ad accedere al circuito di accoglienza e protezione ed ottenere lo status di "rifugiato”, ma il respiro della vita soffiava libertà e autonomia.
“Milano, una città convulsa, da capire, i grattacieli incombenti, il traffico…dove la poesia, l’incanto del silenzio? La povertà, quel parlare tra africani senza concludere, quell’oziare senza comunicare “Voglio un lavoro”, mi impegnai. All’Ortomercato fui assunto come magazziniere, facchino all’occorrenza, tuttofare, insomma…ma la nuova etichetta di lavoratore era il primo gradino del sogno. Il mio amico scelse un percorso di guadagno facile vendendo borsette nei mezzanini del metro, ma non era contento. Nelle lunghe sere ci guardavamo smarriti, il pianto negli occhi, il canto del fiume, il volo degli uccelli di un mondo perduto.
Poi un miracolo…nel reparto ortofrutta apparve Stella, una dea. Bella, luminosa, sorridente. Gli occhi si accarezzavano senza parole, i pensieri si intrecciavano con pudore…non illuderti, sei nero, non sapresti neppure cosa dire, che cosa offrire, mi dicevo. Il tempo maturava i gesti, l’intensità degli incontri, quando con il padre arrivava per acquistare la merce da vendere con la loro bancarella ai mercati. “Vieni con me, questa sera, ti porterò in un teatro speciale E la magia delle lucciole che in amore diventavano puntini di stelle, una danza senza fine nell’orizzonte della notte
Dita di luce hanno sfiorato le mie palpebre di notte
e il tuo sorriso s’è alzato sopra le nebbie
che dal mio Congo alitavano fitte.
(Leopold Sédar Senghor)
Poi un’esplosioni di progetti “Ci sposeremo, verrai con noi ai mercati, ma devi imparare bene l’italiano…” Per questo sono qui, per mio futuro”.
In una giornata piovosa e stanca ci lesse una poesia con un sorriso timido
“Dove finisce l'arcobaleno
ci sarà un luogo, fratello, dove il mondo
potrà cantare canzoni d'ogni sorta.
Noi canteremo insieme,
neri e bianchi fratelli, una canzone.
E sarà un canto pieno di tristezza.
Non ne sappiamo il motivo
difficile a imparare.
ma noi lo impareremo tutti insieme
Non esiste un motivo che sia nero,
Non esiste un motivo che sia bianco.
C'è musica soltanto
e canteremo musica, fratello,
dove finisce l'arcobaleno.
Poesia del Sudafrica (R.Rive)
Dopo pochi mesi Stella morì in un incidente stradale, da allora ogni giorno Mohamed prega “Tienimi per mano…”
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