LATITUDINE: 45.4642°. Nord.LONGITUDINE: 9.1851° Est.

 

di Christiano Cerasola


Lee Jeffries, Portraits



Ares ha carenze di ferro, glielo ripete sempre Era ogni mattina quando si incontrano sul 45: “Sei bianco Ares, a te manca il ferro... sei pallido”.
Era non ha denti, i capelli grigi e radi, raccolti in una crocchia incrostata, sporca e puzzolente, gli occhi piccoli e neri nei quali, se si osserva con attenzione, si scorge il vortice di disagio al quale furono costretti ad assistere: sofferenza solida, sedimentata sotto strati di dolore oramai cementificato, nell’asfalto di periferia.
In inverno indossa All Stars bucate, raccattate chissà dove, dalle quali fanno capolino gli alluci; d’estate va in giro scalza, ha piedi neri, unghie frastagliate, caviglie tozze e viola. “Devi mangiare il ferro, Ares”, troncò la frase, sospirando “Dove andrai a finire? Sei un selvaggio. Un ragazzo selvaggio. Siete tutti dei ragazzi selvaggi”. La donna intercettò gli occhi del ragazzo con uno sguardo circolare e si passò l’indice sulle labbra bluastre; sillabò un’altra frase, ma si perse nel tappeto sonoro delle voci; poi aggiunse, parafrasando Burroughs “Chi sono questi ragazzi? Dove andranno? Diventeranno degli astronauti che reciteranno la parte degli idioti...”. Ares sorride, accenna un sì con il capo e s’allontana verso la stazione della metropolitana. Trascina i passi appoggiandosi al bastone della mestizia. Ha altri pensieri.
Di nuovo è notte, è la vigilia di Capodanno, il respiro crea nuvolette che si solidificano appena fuori dalla bocca per dissolversi e svanire nella nitidezza dell’aria.
È una notte fredda, limpida, stellata, nuda, meccanica; notte nella quale le carrozzerie delle auto brillano di una tremolante lucentezza metallica, riverberando la luce artificiale gialla e rossastra dei neon lasciati accesi al Bar-Tabacchi. Nella deriva della periferia la polvere spostata dal passaggio dei bus si raggruma in mulinelli scomposti, vorticanti volute rosseggianti che si sollevano in silenziose concentriche danze di dervisci. Ares osserva profili muti e neri dei passeggeri come fossero pericolose milizie mitologiche: ogni sagoma conduce la vita parallela di un fantasma che si dirige verso il buio; i nomi impressi a stampatello sulle logore carte d’identità, le mani callose e intrecciate sulle ginocchia, le pance piene di pranzi esausti, l’assenza di qualsiasi prospettiva. Poi muove lo sguardo verso i lampioni, fissa la luminosità di alcuni e l’intermittenza di altri, ascoltandone il ronzio; vittima dei suoi stati umorali ha l’abitudine di soffermarsi sul disservizio di quelli del lato destro del marciapiede. Sembrano occhi spenti, come quelli di ciechi e ottusi titani. Le pupille sono dilatate, il buco che si è fatto nel pomeriggio gli fa male, il livido viola lo circonda come una nebulosa malvagia, il freddo arriva dalla periferia alle sue vene, lo agguanta, sconfina per guadagnare terreno. Ares guarda in basso, poi all’insù, poi per terra ancora. Una lacrima segna il viso, scivola metallica sulla guancia, lentamente, mangiandosi centimetri di pelle, traboccando dal celeste dello sguardo per piombare nel nero abisso dell’asfalto.
È tardi, le luci sibilano e si spengono di colpo, lasciando spazio a ombre infide che strisciano per terra. Gli spettri esistono davvero. Si riscalda con il fiato greve della gente, con la malvagità degli sguardi, indifferenti e pesti, con la rassicurante striscia di luce che attraversa le fessure delle imposte dei palazzi, tenute chiuse. Si rincuora nell’attesa di una promessa. Alza lo sguardo al cielo nero e sospira, gli occhi fissano un puntino luminoso, una luce minore, lucida, che sovrasta una stazione di benzina. Un coriandolo tremolante e lucente, appeso a sud-est della falce della Luna che quella notte brilla argentea e imperiosa.
Si sente come un disegno ad acquarello che si dissolve nel tempo; strofina le mani nervose, da adolescente: mani lunghe, affusolate e scorticate, le mette a coppa attorno al volto irrigidito dal gelo e indurito dai dispiaceri. L’abbigliamento pesante intorpidisce i movimenti ma lentamente si stende per terra, supino, e poggia la testa rasata sul cemento freddo continuando a fissare quella stella in mezzo all’oscurità che pare inchiostro denso, assopendosi gradatamente e domandando a quel bottone scintillante, con la sua sfacciata e incorrotta giovinezza, di essere ripagato per quello che merita, con annessi i crediti:
ad Ares è dovuto il colore che desidera, i sorrisi che vuole, gli abbracci che spera, i baci che pretende. Da piccolo aveva paura del destino, sapeva che se gli fosse saltato addosso avrebbe perso. Gli dissero di no. Che aveva torto. Gli raccontarono che sarebbe diventato adulto e avrebbe condotto la sua quadriga, indossato l’armatura di bronzo, impugnato la lancia. Avrebbe piegato il fato, riempito il tempo. Ogni cosa. Nella vita si sarebbero alternati onori e lustro, il suo astro sarebbe stato illuminato da gloria e splendore: avrebbe amato Afrodite, dominato tuoni e fulmini, sconfitto gli Achei, massacrato Perifante, combattuto con Eracle.
Lui vuole disperatamente ogni cosa promessa.
Si è fidato dei grandi, li ha ascoltati. Ares si ricorda tutto. Ares ha una striscia di sangue rappreso che parte dal retro del ginocchio per avvitarsi attorno al polpaccio snello, un’esile lingua scura che si porta appresso ogni immagine della sua misera esistenza. Alle coordinate di latitudine 45.4642° nord e 9.1851° di longitudine est, sistema la coperta rossa, consunta, spostandola da una parte all’altra e s’addormenta con un ghigno beffardo sulle labbra purpuree e screpolate. Forse per sempre, o forse sperando che l’azzurro di un’altra alba arriverà squarciando le tenebre della notte, per non terminare tutto così, per non farsi avvolgere dal nero: troppo in fretta, troppo presto. Troppo facile.


racconto tratto da "Sistole e Diastole" Elmi's Word 2022

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