LA CHIESA AL CENTRO DEL VILLAGGIO

 

di Seba Pezzani

foto di Seba Pezzani




Ora, recitiamo insieme il giuramento di fedeltà alla bandiera.”

Prima ancora che il frullio involontario delle mie palpebre autonomamente stupite si sia placato, l’assemblea china la testa come una sola persona e chiude gli occhi o, quantomeno, così mi sembra. Sarà, forse, la luce fioca, perfettamente in tono con l’ambiente, un salone adiacente alla chiesa evangelica locale. Nel Texas Orientale, a poche miglia dal confine con la Louisiana. Profondo Sud, insomma. Non chiedetemi di quale congregazione. Nei religiosissimi Stati Uniti d’America – quelli che, alla faccia degli altri stati del medesimo continente, si ostinano ad arrogarsi il diritto di rappresentarla per tutti, felici di farsi chiamare amichevolmente “America” – la galassia evangelica è straordinariamente complessa e articolata e si fatica anche solo a ricordare le congregazioni più note e a distinguerne i contorni storico-confessionali dalle altre: battisti, anabattisti, episcopali, presbiteriani, carismatici, metodisti, pentecostali e via discorrendo. Chiunque può fondare la propria chiesa e intestarsela con orgoglio… evangelico. Basta far quadrare i conti, come insegna sapientemente la dottrina calvinista.




E, allora, vada per la recita del giuramento il quale, per dirla tutta, ha una ritualità che, più che una dichiarazione di fedeltà alla nazione, sa tanto di setta esoterica. “Giuro fedeltà alla bandiera degli Stati Uniti d'America, e alla Repubblica che essa rappresenta: una Nazione al cospetto di Dio, indivisibile, con libertà e giustizia per tutti.” Figurarsi se non saltava fuori “Dio”. E dire che l’evento a cui sto presenziando è poco più di un comizio, un incontro transitorio con un membro del Congresso degli Stati Uniti, repubblicano e trumpiano.

In realtà, malgrado le sbandierate dichiarazioni di rigorosa separazione tra Stato e Chiesa, la Costituzione degli Stati Uniti d’America è meno chiara di quanto si voglia dare a intendere. “Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione.” In fondo, persino i padri fondatori della nazione ci sono andati con i piedi di piombo, ben sapendo che stizzire gli evangelici – per tradizione, malgrado il nome roboante, più vicini all’Antico che al Nuovo Testamento e, dunque, più inclini a vendette, violenze e risentimenti – non era una buona idea neppure allora.




E, da studioso della cultura popolare americana, ho sempre percepito che i due ambiti fossero meno distinti di quanto si possa pensare. Ma ultimamente la situazione è persino peggiorata. Mai come negli ultimi tempi mi è capitato – con malcelato fastidio – di avvertire l’ingerenza della dottrina evangelica nelle scelte politiche nazionali.

Non a caso, dopo il giuramento di fedeltà alla bandiera, immancabile (o quasi) è la preghiera. Già, avete inteso bene: una preghiera recitata da un pastore o, in sua assenza, da un volontario che ne faccia autorevolmente le veci. E tale preghiera è di atmosfera simile alla formula del giuramento stesso. E quasi identica è la modalità con cui viene pronunciata: a capo chino, con gli occhi semichiusi – eh, ma è proprio una mania, allora! – e, possibilmente, con un tono di voce sobrio e le luci soffuse. E la preghiera, inevitabilmente, è qualcosa di simile a ciò che segue: “Dio, ti ringraziamo per questo paese meraviglioso che ci hai donato e ti preghiamo di renderlo ancor più forte. Amen!”.

Perché quella di non essere i più forti e di non essere i più belli – i più simpatici, non necessariamente – e, addirittura, di non essere adeguati al ruolo di faro internazionale che si auto-impongono è una vera ossessione che solo la presenza di un Dio benevolo e talmente innamorato degli Stati Uniti d’America da volgere su di essi e su di essi soltanto i suoi occhi misericordiosi riesce a non far esplodere in follia vera e propria.

Il paradosso è che la società degli Stati Uniti non è mai stata tanto “religiosa” quanto sembra esserla in piena età trumpiana, ovvero nel regno del tycoon che tutto può dirsi tranne un uomo di profonda fede – ovviamente, è legittimo che lui professi l’opposto – e di comprovato senso di pietà.

L’inquietudine che questi slanci fideistici ispirano lascia interdetti.

Nella storia dell’umanità, un’eccessiva commistione di politica e fede o, se preferite, di stato e religione non ha mai portato frutti di bellezza e bontà.




Ma, a differenza del mondo cattolico, l’evangelismo ha molteplici poli. Insomma, non ce la si può prendere con una sola, somma figura ieratica per qualcosa di inaccettabile in politica, dato che ogni confessione ha i propri leader e che, talvolta, la chiesa di ogni paese ha il proprio fondatore. Addirittura, il proprio “titolare”. Perché pecunia non olet, nemmeno sull’altare.

Inutile, dunque, tentare di rimettere la chiesa al centro del villaggio. Solitamente c’è già. Anzi, ce n’è più di una. E, anche se, invece che al centro, è su una collinetta isolata, qualcuno che la frequenta con ardore c’è.

E a far pendere l’ago della bilancia verso il candidato repubblicano è stato proprio un tema caro agli evangelici: l’antiabortismo. D’accordo, è un’analisi politica un po’ tagliata con l’accetta, ma, se per quello, non è che il pensiero politico-religioso dell’universo evangelico sia particolarmente articolato.

Come mi ha detto un pastore battista estremamente colto e preparato, “Donald Trump è un bugiardo incorreggibile, un donnaiolo impenitente, persino un delinquente conclamato, ma c’è una questione dirimente che, da cristiano, non posso eludere: l’aborto. Quella è la linea invalicabile che traccio”.


Seba Pezzani

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