MINACCE A DIRSI, IN CORSA
di Bruno Pompili
Il Ciclista, di Natalija Goncharova (1913) olio su tela. Museo Russo di San Pietroburgo
Alberto Lo Prieno sapeva di dover salire il colle con sforzo, lo riteneva fattibile con un certo impegno, e pedalando all’inizio in agilità: era questo il pensiero di tutti, visto che si erano preparati bene per tempo.
Il messaggio è arrivato tardi, quando mezza costa era stata superata e diversi si erano staccati; qualcuno già cedeva subito all’inizio per ragioni tante e non per incapacità o mancata preparazione.
Passata la metà della scalata si era visto superare da quattro, agilissimi e rapidi come se non avessero già corso ottantasei chilometri prima di affrontare la salita. C’era da aspettarsi un crollo di lì a poco, ma continuavano con uno stesso ritmo ineguagliabile.
Alberto Lo Prieno capì che qualcosa non era in sintonia con le previsioni. Nessuno poteva tenere quelle frequenze e quel rendimento, o lui aveva sbagliato calcoli nella preparazione allo sforzo e ai cambiamenti di ritmo; oppure entrava in gioco la resistenza di fondo, dunque anche l’alimentazione o l’equilibrio dei liquidi. Tutto questo si ammucchiava senza distinzione nel suo sguardo puntato sui sassolini dell’asfalto, sull’erba secca e gialla lungo la spalla del fosso, sulle ombre degli altri davanti a lui.
Allora quasi d’improvviso sentì che poteva accelerare e già lo stava facendo mentre le ombre davanti erano a distanza immutata, stabile, quasi invariabilmente fissa. Una serie di curve gliele nascondeva, ma poi riapparivano. Appena più vicine, forse.
Dopo l’ultima curva le trovò ferme, bloccate da qualcuno con bandiere, una bandiera, che si era messo di traverso. Fermati tutti, perché la corsa non doveva neanche partire. Almeno da dove comincia la scalata. Il messaggio purtroppo era arrivato tardi, ed era anche confuso. Neanche essere partita, non doveva, dunque.
E cosa vorrebbe dire.
Sedettero sull’orlo della strada che a iniziare di lì stava diventando poco più di un sentiero: non importa se la gara entrava allora nella parte più impegnativa, decisiva.
Si guardarono come per decidere insieme se continuare o no.
Scuotendo la testa uno o due fecero capire che non aveva senso ricominciare: una corsa che non doveva partire. Non essere partita, mica interrotta.
C’erano delle ragioni, serie, o neppure si sapeva ancora.
Uno, che prima era un’ombra grossa, lo dice chiaramente che «sarebbe irregolare». Quasi strilla. Perché nasconde una debolezza.
Altre due ombre, più sottili e anche pallide, mostrano dubbi e smuovono le spalle. Alberto Lo Prieno sussurra che «li stava raggiungendo».
Nessuno gli dà credito, non lo guardano proprio.
«Sì, dentro di me.» All’interno del proprio orecchio.
Il grosso, che sembra avere delle ragioni in più, sostiene che «era troppo indietro» per raggiugerli.
Oramai sono d’accordo che «non si può ricominciare così».
Tecnicamente si dovevano «neutralizzare i tempi e nessuno l’aveva fatto».
Timidamente c’era l’opinione che «si può ripartire purché Lo Prieno parta dopo, o per niente».
«Sì, dentro di me. Non so neanche da dove ho attaccato, e anche il percorso è a sorpresa.»
Uno di quelli con le bandiere tuonò: «Di cosa parlate se la corsa non c’è e non ci doveva essere. Andate a casa, pian piano e non fatevi male. Tanto sappiamo chi siete e dove state e a che punto sareste stati.»
Sembrò a tutti come una minaccia. L’ombra grossa si è mostrata la più arrendevole di tutte, e già si avviava verso la discesa che cominciava poco più in là del sentiero. Prima c’era però da continuare la scalata sullo sterrato. A saperlo prima!
«Sì che lo sapevo. Io.»
Come per scherzare le due ombre sottili fecero uno scatto, guardarono se erano seguite, «no», e continuarono lo scatto come un gioco fra di loro. Alberto Lo Prieno non si fa sorprendere facilmente.
Nessuno aveva chiesto perché li avessero fermati, e in fondo neanche lasciati partire per la parte impegnativa. Si erano preparati per niente e questo «non si fa, non va bene farlo, non si deve proprio».
Si rivoltò l’ombra grossa verso Alberto Lo Prieno, o verso qualcuno che gli stava molto vicino e aveva borbottato qualcosa, comunque udito tutt’intorno.
«Si corre quando è regolare.»
Nessuno ha avuto voglia o ragioni per obiettare. Solo un organizzatore, quello con la bandiera che aveva fermato tutto.
«Tu non sai neanche che saresti morto.»
O non hanno capito o non hanno sentito.
Quello che non aveva la bandiera lo guarda come una domanda che non si vuol dire; oppure non vuol usare le parole sull’incertezza da dove fossero venute.
«… che non ci hanno detto niente neanche a noi.»
Una macchina alza i giri lungo la salita, in terza marcia, e quasi fischia, senza ragione. Quando arriva trascina tanta polvere che non si sa dov’è. Scende già per la strada grande, quella che non avrebbero preso i corridori, ma che adesso la prenderanno. Se non vanno dall’altra parte. Ognuno va come crede o dove vuole. Ci sono come dei saluti.
«Com’era quel discorso che il grosso sarebbe morto?»
«Una cosa stupida. Pare che lui sia figlio di uno che dovrebbero ammazzare, ma prima “fuori il figlio”, così impara.»
«Tu ci credi a queste cose? Io mai.»
«Crederci ci credo, ma non credo che sia vero.»
Ci hanno già provato un’altra volta.»
«Quando sarebbe?»
«Non si sa. No, io non lo so. Gli altri forse.»
«Gli altri chi?»
«La direzione della gara.»
«Buoni, quelli. Non capiscono mai niente.»
«Ma se c’era un pericolo, una minaccia, lo avranno pur saputo.»
«Sempre ce ne sono, ma non ci si crede.»
«Allora noi andiamo a casa, e basta così… senza saper niente.»
«Vediamo la prossima corsa se si farà, però che ce lo dicano prima.»
«Questo è giusto, ma anche loro… pensi che lo sappiano?»
«Io sicuro non lo so. Ma a pensarci bene la prossima volta io non ci vengo.»
«Sarà.»
«No. È sicuro.»
Alberto Lo Prieno mette a posto con le dita la catena sui pignoni perché ogni tanto gli sembra che gli slitti via. Per questo lo avevano staccato all’inizio della salita, altrimenti non lo avrebbero lasciato lì, quasi subito.
«Ehi Lo Prieno, dài che non è andata male, un po’ e li prendevi, poi sullo sterrato tu sei forte.»
Si direbbe che non ne abbia voglia, di rispondere. E quel che si è sentito gridare non è cosa da poco. Se non fosse detto per prendere in giro.
«Vai Lo Prieno, che non è vero niente.»
Se strilla così uno spettatore, vuol dire che certe cose si sanno. Meglio dei corridori, che dovrebbero saperne più di tutti. Perché sono loro i professionisti, voglio dire i protagonisti.
Ormai non passa più nessuno e si può andar via senza mangiar tanta polvere.
«Dài Lo Prieno, va’ Lo Prieno che ce n’è uno in meno. Il grosso è morto. O dura poco. Ormai.»
Cosa sarebbe questa storia sul grosso.
Cosa che si dice, o c’è del vero?
Alla fine della discesa stanno fermando tutti i ciclisti.
«No. Lui è Lo Prieno. Lascialo andare.»
Alberto Lo Prieno può andare solo a casa. Anche a cercare una alternativa è difficile trovarla.
«Dài Lo Prieno che anche stavolta hai vinto tu.»
Lo sorpassano delle automobili scoperte, dove qualcuno ha delle bandiere, una bandiera.
La giornata è stata lunga ed è finita in modo stupido, o come si direbbe. Inspiegabile. O con una burla. Se non una bugia.
A casa, la sua sorella grande.
«È passato uno con una macchina e ha lasciato questa.»
La coppa.
«Ho sentito dire che ci son stati dei morti. Tu dov’eri.»
Davanti, lontano, si potrebbe dire.
«La coppa. Non riesco a ricordare, ma mi pare che sia la prima volta che viene data così. Una volta o l’altra mi verrà voglia di capire meglio. Inutile chiedere adesso.
Però questa storia del grosso. È la prima volta. Certo: se è morto!
Non ci sono due volte. Lo direbbe chiunque.
E se viene un giornalista a chiedere, dirò che non so niente. Ed è proprio vero, anche se così faccio la figura dello stupido che ha preso la bomba.
Io sono Alberto Lo Prieno.»



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