SOLO DI AUGUST STRINDBERG. INTERVISTA AL PROF. FRANCO PERRELLI, TRADUTTORE DELL'OPERA



di Laura Bonelli

E' una solitudine "attiva" quella suggerita dal drammaturgo August Strindberg nel racconto Solo, riproposto da Carbonio Editore con la traduzione di Franco Perrelli.
Attiva nel senso che il protagonista non si chiude nello sconforto e nell'isolamento bensì vigila e discerne, non accettando convenzioni e stereotipi sociali in cambio di compagnia. Strindberg scende nella profondità dell'animo umano, nelle grettezze e nelle aspirazioni e invita il lettore a guardarsi dentro senza timore, al fine di scoprire  ciò che è essenziale per poter essere realmente vivi e non vagabondare nella parvenza, nell'acquietarsi, negli intrattenimenti futili.






La prima domanda che le faccio è sulla traduzione. Quali sono, secondo lei, le luci e le ombre della scrittura di Strindberg?

Strindberg è un classico “non classico”: su diverse sue opere, gli editori (tralasciando le eventuali ragioni di censura) si sono sentiti in dovere d’intervenire migliorando stile e punteggiatura. Nella scrittura, Strindberg alterna momenti altissimi e fortemente interiorizzati a divagazioni scientifiche o pseudotali, considerazioni psicologiche o religiose, ogni sorta di tema e talora pure di banalità. Insomma, sulla pagina si riversa una personalità estrosa e sfaccettata, che tende a cogliere la realtà e la vita da angolazioni impensate, noncurante di eventuali inevitabili dislivelli di stile. Il traduttore e il lettore debbono essere pronti a queste escursioni e abituarsi a salire su quei picchi che Kafka riconosceva in Strindberg e a sprofondare all’improvviso. Si tratta di una scrittura dinamica, che ha il ritmo del pensiero e questo, in fondo, è il suo fascino.



 In Solo viene fatta un'analisi profonda dell'animo umano. Si può capire che percorso esistenziale fece Strindberg per cogliere così tante sfumature dell'interiorità?

Alla fine dell’Ottocento, a Parigi, in Austria e nella Svezia meridionale, Strindberg visse un periodo di profonda inquietudine, che ha dato adito a un’ampia letteratura psichiatrica (sottoscritta pure da nomi importanti come Karl Jaspers), ma che, se follia fu, ebbe senz’altro un “metodo”, anzi un fine: ritrovare Dio e, nella vita, i segni suoi e di un mondo metafisico parallelo, nei confronti del quale l’esperienza possa aprirsi. Questo ha inevitabilmente creato un nuovo afflato mistico nella scrittura di Strindberg, che, tuttavia – più che cambiare –, asseconda una sorta di variazione nella quale il naturalismo e il materialismo tendono a spiritualizzarsi, ma senza perdere la loro pregnanza. Da qui un’analisi insieme più complessa e promiscua della realtà e dell’esistenza, dove – per dirla con i versi di una poesia di Lagerkvist – “le cose stanno qui e sono altrove”, e dove Strindberg (come scrive in una lettera del 1899) dall’essere un audace sperimentatore passa ad essere una “cavia” (pronto, in ogni caso, a compiere immediatamente il cammino inverso).



Edvard Munch, August Strindberg


Una parte del racconto riguarda alcuni aspetti delle varie religioni. Anche in questo l'autore si presenta come un acuto pensatore...

In Solo e in altre sue pagine sulla religione (sulla quale per l’appunto riflette moltissimo dopo la crisi spirituale di fine secolo), più che un pensiero, Strindberg ci comunica l’espressione di un “bisogno”. Ancora in una lettera del ’99, afferma infatti: “Ci sono uomini che hanno bisogni religiosi, altri no. Io devo avere un rapporto con lo Jenseits, con l’Aldilà, per ottenere prospettiva e lointain nelle mie pitture e non sono capace di respirare nel vacuum fisico”. Tuttavia, Strindberg resta afflitto da dubbi gnostici profondi sulla bontà di Dio, e la sua “fede” (ora rigidamente pietistica ora apertamente aconfessionale) appare dichiarata – nei suoi limiti di non-sistema – in alcuni passi dei Libri blu, dove è definita tutt’altro che “un abito domenicale, bensì un silenzioso accompagnamento alla grave melodia della vita quotidiana“; così, nel cristianesimo, “bisogna accettare tutto in blocco, l’impuro, i dogmi e i miracoli, da assumere senza critiche, ingenuamente, a grandi sorsi, come s’ingolla l’olio di ricino col caffè bollente… Apri la bocca e chiudi gli occhi! È l’unico modo”. Probabilmente, su questo ha ragione.



La solitudine in questo testo non ha una connotazione negativa, sembra un percorso necessario per comprendersi... Provando a fare un ipotetico salto temporale, riesce a pensare cosa avrebbe detto Strindberg sull' isolamento causato dalla pandemia?

Sì, questo romanzo, Solo, è stato riattualizzato anche dalla pandemia e, tutto sommato, può aiutare ad affrontare i rigori dell’isolamento. Non insegna, in fondo, a confidare nelle nostre talora insospettate risorse soggettive, nella nostra infinita capacità d’introspezione, a considerare la solitudine come un momento necessario ed arricchente, al di là della durezza delle condizioni che può imporre? Quanto all’opinione di Strindberg sulla pandemia, posso immaginarmela di supporto ai no-vax, per tante sue manifestazioni d’insofferenza verso quella che definiva la “scienza della decadenza”, ma – essendo personalmente arrivato alla mia terza dose di Pfizer –, su questo piano, mi sentirei di seguirlo meno che sulle questioni religiose, e coglierei anzi l’occasione per consigliare a tutti di vaccinarsi.





 
Uno degli aspetti più interessanti del testo, è il rifiuto degli aspetti superficiali e convenzionali nei rapporti per cercare una realtà più consona a se stessi. Strindberg ci riuscì nella sua vita o fu solo un'aspirazione artistica?

In una lettera del 1904, quindi di poco successiva a Solo, Strindberg scriveva: “Lasciate perdere la mia persona: avete le mie opere!”; qualcosa del genere, l’ho colto anche in un film di Fellini (mi sembra Roma, ma vado a memoria e potrei sbagliare): sono, in primo luogo, le opere che contano e ci parlano, non le personalità – apparentemente grandi o piccole, sublimi o mediocri – degli artefici, comunque e sempre umani troppo umani. Sono le opere che allargano le nostre prospettive, difficilmente gli uomini che le creano. Ai primi del secolo, in Germania, si cercavano maestri a tutti i costi, in filosofia come in letteratura, ma Strindberg onestamente declinò il titolo: “Sono solo un poeta che vive, nel suo pellegrinaggio, tutte le tappe dell'esperienza umana, per ritrarre gli uomini”. Giusto di questo pellegrinaggio è assai utile servirsi.






Professore ordinario di Discipline dello Spettacolo ed Estetica, attualmente presso l’Università di Bari, Franco Perrelli (Venezia, 1952) è tra i massimi conoscitori dell’opera di August Strindberg in Europa, unico italiano ad aver ottenuto, nel 2014, lo Strindbergspris, prestigioso riconoscimento rilasciato dalla Società Strindberg di Stoccolma.

Folta e costante la sua produzione critica sull’autore svedese con testi come August Strindberg. Sul dramma moderno e il teatro moderno (1986), August Strindberg. Il teatro della vita (2003), Strindberg. La scrittura e la scena (2009), Strindberg l’italiano. 130 anni di storia scenica (2015), On Ibsen and Strindberg. The Reversed Telescope (2019).

Nel 2009, Perrelli è stato insignito del Premio Pirandello per la saggistica teatrale.

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