IL CIBO SEGRETO DI BRUNO POMPILI





René Magritte
Il doppio segreto ( Le Double Secret ) 1927 Centre Georges Pompidou - Parigi




Alighiero Bendandi raggiunse gli amici al bar sotto il portico; erano già seduti i soliti otto, aspettando gli altri tre o quattro, raramente cinque, per completare il gruppo largo di ogni sera. Alla domenica erano più sparsi, e i presenti avevano difficoltà a decidere qualcosa da fare o dove andare.

Tutti notarono il sorriso insolito di Alighiero, soprattutto in quell’ora tarda pomeridiana, quando era sempre attraversato da un cupo visibile malumore. Era un’ombra di sorriso piuttosto, che non sfuggì a nessuno; ma a nessuno passò per la mente di chiederne una qualche ragione, vera o falsa che avesse potuto dire.

Il gruppo viveva di discrezione: ciò che si faceva insieme era condiviso totalmente, quel che era prima o dopo l’incontro apparteneva al nucleo privato di ognuno, e non altro.

Qualche infrazione, una superficialità per lo più ironica, era accompagnata da sorrisetti e battute brevissime quanto micidiali, e si trattava di allusioni – che nessuno avrebbe avuto in mente di verificare o di spingere troppo lontano – a qualche soggetto femminile. Se però si fosse trattato di legami o storie o complicazioni psico-sentimentali, mai sarebbe nata mezza parola.

Fra due, o al massimo fra tre, nelle situazioni più complicate, eventuali, potevano passare confidenze, senza ironie, ma solo per proteggere l’amico in difficoltà, e solo, dico solo se lui stesso avesse acceso una confidenza, chiesto un primo scambio di parole: le opinioni, molto più tardi. E quando richieste con evidenza, non per sottinteso.

Al momento, e a memoria, non c’era mai stato bisogno di rompere i margini del riserbo, quand’anche in bilico fra desideri opposti di parola o di silenzio.

Per ora, oggi, mancano – e proprio loro appaiono più evidenti nella mente, per assenza – Ferruccio Bellagio, chiamato Ferro, Bartolomeo Cavalieri, chiamato Barto, Alessandro Cavalieri, nessuna parentela col precedente, chiamato da tutti col nome per esteso, perché suscitava sempre qualche timore; era arrivato tardi nel gruppo; e veniva da un’altra città.

Carso Malioni, era il meno preciso, il più carico di scuse, che nessuno mai gli chiedeva: ci teneva a mostrare un carico di impegni, ai quali non si riusciva a credere sempre.

Onorato Bonacasa, chiamato Bona, ma tutti pensavano, nominandolo, a una delle sue due sorelle, che era di una bellezza al di là di ogni possibile illusione. Poi lei si sposò con uno da fuori, visto in città solo alla vigilia del matrimonio, e “Bona” rimase soltanto lui, senza neanche più ricordi serpeggianti in un silenzio comune: era andata altrove, e basta; non era dunque mai esistita.

Così succede quando vai fuori dal gruppo e dai suoi sogni segreti; non c’è spazio per rimpianti, e memorie. Se poi, una volta o l’altra, torni per un passaggio rapido, o un saluto di un giorno, arrivi, ti siedi, un cenno ed è come se non fossi mai andato via. Il tuo posto era sempre rimasto lì, in silenzio.

Succedeva, negli anni, che qualcuno se ne fosse andato per non tornare: nessun riferimento sarebbe stato comunicato, anche la morte comportava un impercettibile moto del capo, meno di un millimetrico cenno del sopracciglio; ogni parola sarebbe suonata superflua, e sciocco ogni commento.

L’ultimo ad arrivare oggi (gli altri assenti avevano un impegno insieme, non meglio precisato, un lavoro, un funerale di lontane parentele miste) era dunque Alighiero Bendandi, detto Scisma, a causa del cognome uguale a quello di un famoso sismologo, senza alcuna parentela fra di loro, ma a lui piaceva lasciar intendere una lontana, minima relazione: era soprattutto fra i pochi a cogliere la differenza sonora fra scisma e sisma, o se ne ricordava soltanto lui. Qui, si può anche ridere.

Alighiero Bendandi era arrivato portando un piccolo segreto che non avrebbe mai comunicato ai presenti; forse a Bona, sì.

Neppure Bonacasa però sapeva che sua sorella e Scisma avevano avuto un inizio di storia, perché si erano trovati insieme per caso in un lungo viaggio con una breve permanenza all’estero: rientrati, si erano visti di nascosto tre volte; non era possibile prolungare oltre una casualità. Di questo incontro era rimasta in Alighiero una inclinazione a potersi o volersi confidare col fratello di Alberta, il suo nome.

Da qualche silenzio, da un diffuso imbarazzo che tuttavia non lo interrompe, da un improvviso cambiar chiacchiera, scivolando per esempio sull’attualità, in occasione di discorsi sui legami complicati fra sesso e amicizia, gli era arrivato il sospetto che tutti lo sapessero, e solo Onorato Bonacasa no.

Ora che Alberta è stata vista in città, i silenzi sembrano più carichi del solito, di quelli almeno che piombano sempre inattesi in mezzo al gruppo senza che nessuno sia abbastanza pronto o sveglio per spezzarli.

Alighiero l’ha vista da diversi giorni, frettolosa, un po’ ingrassata e una stanchezza nel passo, lei che una volta camminava senza toccare terra ed era come una nuvola veloce che trascina fori di luce e lascia ombre dove già non le vedi più.

Non ha fatto nulla per attirare la sua attenzione, sapendo che per certo lei lo aveva visto: non poteva aver perso il suo istinto e il suo occhio assoluto, senza angoli morti.

Dunque sapevano ambedue di esserci.

Lui non ha fatto niente per farle capire che non gli era sfuggita; anche lei lo sapeva. E se lo tenevano per sé, per imbarazzo, per stanchezza, per mancanza di reattività, per senso della fatalità, o per nessuna voglia di parole; o era un riserbo dominante, di fronte a un ritorno improvviso. Poteva infine apparire anche come l’inutile specchio di un fallimento.

Alighiero sapeva per di più molto bene dove Alberta abitava e dove forse abita ancora; poiché è proprio sulla piazzetta che l’ha rivista, quella che attraversa tutti i giorni per i negozi lì attorno e per un più facile parcheggio. Sapendo che la rivedrà passare inevitabilmente, o la troverà ad una cassa di negozio, non può aver fretta di parlarle, per una semplice curiosità, o per frasi che si possono già ricordare.

Le più probabili, e condivise: «Sì ti avevo visto, ma avevo una gran fretta.» «Sì ti avevo vista ma avevi come sempre una gran fretta.»

Non è per questo che Alighiero Bendandi, Scisma, aveva coagulato uno strano sorriso, tanto era nascosto da diventare più una increspatura soddisfatta che non un moto istintivo controllato.

Aveva attraversato la piazzetta solo per andare da un tabaccaio; non era giorno di spese obbligate e dunque le aveva tralasciate tutte.

Si era accorto di non aver pensato quasi più ad Alberta. Non sorpreso. Aveva imparato, nel tempo. Questa costatazione è quasi l’unico residuo di un affioramento involontario del passato.

C’erano state delle città lontane, residenze transitorie, parchi e giardini, vicoli e cortili dove non si può restare a lungo. Dominava una libertà. Era transitoria, ma aveva momenti di assoluta indipendenza dal tempo e dal luogo. Era diverso il respiro delle giornate, gli orari stessi del cibo e del sonno. I risvegli per un breve momento, prima di ricapitolare la realtà, erano quelli del giardino terrestre. C’è sempre un serpente della realtà convenzionale che ti mostra le strade del ritorno dovuto e la parte insopportabile del futuro.

Condividere un legame segreto, o per ora non manifestato, del tutto inatteso quanto soddisfacente, stordiva la testa ad ambedue. Andava bene così ma c’era un’ombra che stava fissa altrove, come l’agguato di una pur gracile sfinge; una volta affrontata avrebbe condizionato il futuro di tutti.

Non si capiva perché quel tempo dovesse poi essere un problema, ma così era stato. C’era un’aria di infrazione nel loro incontro e soprattutto il senso di una sciocca casualità: trovarsi per caso non era una scelta, non toccava né idee, né sentimenti, né attrazioni, solo debolezze della solitudine. E questo divenne percezione, lucida descrizione di se stessi, dubbio sulle reciproche ragioni di contentezza – felicità, sarebbe troppo dire – che non può essere affrontato subito, proprio perché ci sono esitazioni su tutto.

Per una qualche ragione, poco spiegabile dopo, avevano deciso di rientrare separatamente ma con appuntamenti precisi per non rendere inutile, o solo memoria, quell’incontro.

Alighiero si era dato una risposta che mai avrebbe confessato o ammessa: Alberta era troppo bella, e in un paragone improprio lui era troppo sciocco, uno stupido che non la può meritare.

Camminando, guardando le cose minute tutt’intorno, ha collegato quel frammento imperioso e lucido di memoria ad arrivi sorprendenti e a scomparse repentine di gabbiani: da qualche tempo scendevano in cortili interni o su terrazzi nei pressi della piazzetta e con i loro gridi angosciati lo avevano distolto da riflessioni nebulose e stravaganti, lo avevano richiamato di forza nella piazzetta, quasi davanti all’ingresso della casa di Alberta.

All’inizio-inizio ne era arrivato uno, che si era appollaiato sul muretto di un balcone. E non si sapeva perché fosse arrivato lì, e cosa facesse così lontano dal mare. Poi era tornato per il cibo che i bambini gli avevano lanciato.

Ci si aspettava che ne sarebbero arrivati molti altri e questo non era successo subito; lui aveva tenuto segreto il luogo del cibo, forse aveva fatto lunghe giravolte nell’aria per ingannare lo stormo o i singoli sulle direzioni che prendeva.

O non è stato sempre attento, o ha voluto rendersi utile per istinto al branco: sono arrivati poi in molti. Volano in tondo e calano gridando su di un cibo ridotto. Gli abitanti hanno preso la decisione di vietare ai bambini e alle vecchie di dare pane e avanzi agli uccelli. «Che vadano a prendersi i pesci nel mare.» «Che vadano su qualche discarica, come ce ne vanno tanti.» «Non possiamo essere noi la discarica. Non vogliamo malattie. Ce ne sono già tante.»

Il primo gabbiano doveva tenerselo per sé quel posto speciale, riservato e privilegiato.

Alighiero, oggi, ha visto da lontano, voltandosi ad osservare gli uccelli, ha visto l’amico Onorato che portava delle valige, e non si capiva se era per qualcuno che parte o che arriva. Non ha insistito a osservare, tanto, presto o tardi, lo si saprà.

È per questo che si è portato al bar, alla sera, e alcune sere, quel sorriso insolito e non proprio suo. Nell’attesa un silenzio è meglio.

Questa sera Bonacasa ha comunicato, perché non poteva tenerlo segreto per sempre e aveva bisogno di dirlo, che sua sorella Alberta dopo aver lavorato in un ospedale si è ricoverata nello stesso per delle cure lunghe.

Un silenzio è durato. Fino ai saluti con pochi gesti. Per fortuna quando ha deciso di dirlo era già un’ora molto tarda, per tutti.

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