MA IO SONO MIRO'

di Nene Ferrandi




Joan Mirò, Le soleil rouge (1967)




Davanti a un cancello arrugginito di una casa popolare fatiscente, seduta su una sedia spagliata, un cerchietto rosso tra i capelli arruffati, Neride, detta Ninì, offriva i suoi Mirò per pochi spiccioli a chi sapeva illuminarsi e intuire e gioire. E i segni, i simboli, i folletti inventati, le scatoline magiche ballavano la danza di un sogno, l’altalena vorticosa delle emozioni. Piatti, ciotole, tavolette di legno, piastrelle, oggetti improvvisati, tutti decorati con l’estro di un amore incondizionato per Mirò.

Ma la strada per incontrare il grande artista era stata la conquista di una libertà nuova, con il sapore di una libertà infantile, nei campi sterminati della pianura padana, quando mangiare l’anguria a morsi e imbrattarsi il viso era trasgressione, quando giocare con i noccioli di pesca era sfidare la legge di gravità, quando i papaveri rossi facevano l’occhiolino tra il grano.

“Ma io sono Mirò”, diceva, quasi avesse comprato un abito su misura e l’anima si fosse risvegliata all’improvviso.

“Ho chiesto al sole un pezzo di eternità, al cielo la limpidezza del suo azzurro, ai ricordi il tempo giocoso dei bambini”.

Anni, anni stanchi di lavoro e andare e ritornare, la monotonia di un fare ripetitivo, la macchina da scrivere battuta con forza, senza esitazioni, in un ufficio disadorno, i colleghi superficiali e irriverenti per quella faccia larga e squadrata, gli occhi bistrati di nero troppo ravvicinati per cogliervi un sorriso. E “abitare” nel lontano 65 in una sala d’aspetto della Stazione Centrale, a Milano, confondere la destrezza di un ladro con gesti di approccio, amare i bimbi al parco sull’altalena rossa, addormentarsi all’ombra discreta di una quercia che ascoltava paziente i suoi sogni.

E ritrovarsi, per caso, in un bar di Brera, al Jamaica, la pioggia incessante, l’umidità scivolosa, in cerca di un rifugio e una tazza di caffè. Ridevano, chiacchieravano, un fumo denso, in piedi a raccontare “favole”, idee, lampi di visioni, di colori immaginati, di un enigma che li rendeva felici e si chiamava Arte. Ancora, pensava, ancora e ascoltare e non importava a nessuno del suo corpo ossuto e sgraziato, delle mani perennemente gonfie: la sua anima dialogava con facilità nell’ansia di sapere.

In una sera d’autunno, quando il sole canta sommesso la sua malinconia, dolce e fragile e le ombre lunghe e indefinite si perdono tra le nuvole sfilacciate, incontrò l’Amore.

Andrea, un artista. Dipingeva con gli occhi di Mirò, diceva. Sogno e follia, creatività e magia. Gioco e danza. Parole e racconto. Un mondo parallelo senza condizionamenti. Una vorticosa forza di emozioni. Un delirio di linguaggi che si incontrano. L’estasi di innamorarsi ogni giorno dell’impossibile. Volare e respirare libertà.

L’amore finì a primavera. Il “Migliore” scomparve, senza una parola, quando un nuovo tepore sconvolgeva l’aria, l’incanto della natura augurava promesse, le rondini volavano gioiose.

E il tempo trascinava le stagioni senza un perché. Sì, ora una casa, il lavoro, l’affanno della fatica, la luce di un dialogo solitario ogni sera con gli “scarabocchi” fatati e le atmosfere di Mirò. E si era convinta di saper riprodurre quel linguaggio con la fedeltà di un sogno condiviso, un’immedesimazione che la rendeva molto speciale.

“A me basta”, diceva in una solitudine senza rimedio e, a 65 anni, fu frenesia e passione, ragione di vita.

“Ma io oggi, finalmente, sono Mirò”

Follia e sogno. Quella follia totalizzante, senza mediazioni, oltre…. E “Le soleil rouge” giganteggiava su una parete, infinito di rosso, con quella luna forse gelosa e poi un uccellino giallo, una stella blu e un bambino in cui riconoscersi, con un filo lunghissimo di aquiloni, tutto da scalare. E ancora “Il Carnevale di Arlecchino”, un gioco festoso, ritmato da musica sottesa, un inno all’allegria..

La follia di fluttuare con un gatto, un tavolo, un pesce, dei misteriosi insetti, fare boccacce a quella lingua rossa, affacciarsi a quella finestra guardando un cielo azzurro quasi violento di intensità.

E riprodurre dettagli, personaggi immaginati, dialogare, proiettarli nel suo immaginario.

La follia di una poesia sospesa offerta alla fantasia dei bambini, ai sentimenti dei semplici .

La nostalgia implacabile dell’unico amore, Andrea. La musica che galoppava nel tempo, ossessivamente ascoltata, cantata, rimpianta.



Felix von Altersheim, Tina Turner



Tu sei semplicemente il migliore
migliore di tutto il resto
migliore di chiunque altro
chiunque altro io abbia mai incontrato…(The Best)


Tina Turner cantava l’illusione di una vita.

Neride, detta Ninì, è morta su quella sedia spagliata, in una mattinata imbronciata con i primi freddi dell’inverno, dopo un lungo respiro e un sorriso. Accanto, il magico canestro rosso e i suoi Mirò.

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