HONEY KILLER DI BRUNO POMPILI


Buron Kaceli, Homeless

Quando è arrivato all’ospedale faceva piuttosto schifo, non dico a un occhio estraneo, o per uno di noi che stava lì per caso, presi in contropiede dal sangue e dai cattivi odori del pronto soccorso: faceva proprio senso a chi ci è già abituato, a quelle emergenze.

Poi, qualcuno fra quelli che stanno qui in servizio può avere dei riflessi morali, e si colpevolizza, senza dirlo forte. Per questo uno si insulta dentro se stesso: «ma insomma, chi diavolo sei, cosa stai a raccontare, se non ti va di prendere in braccio un barbone lurido!»

E ha i guanti impermeabili, il camice impermeabile, anche la mascherina che non impermeabilizza un accidente di niente. Il suo odore arriva, è arrivato, come di una capra con grumi penduli di sterco. E poi il liquido all’angolo della bocca; lo pulisci e non si ferma; se non è morto, come lo curi; non devi lavarlo prima di curarlo? o no. In tanta confusione.

Per fortuna ci sono i passaggi assistenziali intermedi; ognuno fa quello che può nella propria sezione, e così per tappe il nuovo arrivato diventa decente o quasi, si può rigirarlo con minore ribrezzo; ma all’ultima stazione, quando è quasi trattabile come tutti i sinistrati, ecco che capita il più schizzinoso dei dottori. Blocca il primo dottorino del tirocinio che passa di lì, gli dice di ripulirlo e renderlo visitabile. Ora, qualche bestemmia è consentita anche agli apprendisti medici, oltre che agli ammalati.

Il mucchietto dei vestiti deborda da un piccolo sacco per materiali infetti: i jeans belli larghi di più di due misure – doveva essere dimagrito parecchio – il maglione nero-marrone con segni di vecchio vomito. L’acido se lo porta addosso, per quanto tu possa lavarlo; ma nessuno ancora l’ha lavato; tolti i vestiti, va già meglio; il fetore è più umano, fresco umano, e non più lurido vecchio umano.

Intanto è morto e non se n’è accorto nessuno. Potevano metterlo via subito, buttarlo nella cella frigo, e c’erano meno problemi; solo nelle storie della televisione salvano sfracelli, budella fuori, cervelli qua e là.

L’amministrativo ci vuol vedere chiaro perché deve caricare le spese di manutenzione del ricoverato (vedi alla voce toilette), o su un capitolo o su di un altro. E secondo la trafila: portantino, infermiere, neolaureato, medico abituato, medico scelto, medico intellettuale con scrupoli, medico decisivo, scaricatore, morgue, «chi li trova i parenti», il problema è chiuso. Poi ci pensano i carabinieri a cercare. A trovare, forse. E la giornata sarà finita.

L’unico medico che deve intervenire, proprio per chiudere il caso, o il discorso, uno straccio di ventura umana, è Occhialino. Sempre lui. Ci deve vedere chiaro, dunque un altro medico ancora, si direbbe l’ultimo scalino, lui, il necròtomo. È uno che non mangia e non beve, Occhialino: due lenti spesse così, che gli fanno gli occhi molto piccoli.

Bofonchia per tre ore, proprio tre ore a bofonchiare: «c’è troppo zucchero, c’è troppo zucchero». Va bene che il cadavere è da diabetico, ma c’è troppo zucchero.

Distruggerebbe i campi di barbabietole, perché ce l’ha contro lo zucchero; andrebbe a Cuba, e gli americani gli farebbero un monumento, a distruggere le piantagioni di canna. Ha insomma una sua politica, a cui nessuno s’associa, perché gli gira in testa come un’idea fissa.

È un medico che se ne va via nelle ore più impensate, infatti non ci pensa. I parcheggi adesso sono vuoti, riconoscerebbe le macchine dei colleghi della notte se portasse gli occhiali. Invece, finalmente, sta senza lenti e il mondo è bellissimo, così sfumato, delicato, profumato: questo non c’entra niente ma è proprio così. Non vede e non riconosce, basta con le cellule mostruose nel microscopio. Finché i corpi non arrivano sul suo tavolo non li considera, tutto gli sta bene, calcola una media fra tutti, e gli sembra vellutata.

Passa sempre del tempo nel parcheggio, che è un gran posto, ricco di macchine.

La figlia dell’abusivo gli sembra bella, però lo sapeva da prima che è uno schifo, come l’abusivo, che dorme fra il paraurti di una mustang importata di seconda mano dell’internista e la fiancata della nuova porsche dell’otorino.

Una volta ha detto all’abusiva che a lui stava bene, cioè non l’ha detto ma neppure l’ha negato; poi ha giurato che non era più il caso di insistere: una volta e basta. Era dovuto tornare indietro, alla sala anticeltica, perché ha preso paura, non per ragionamento ma per odore. Quello l’ha spaventato, proprio lui, col suo mestiere.

Deve averle detto qualcosa di scortese, o l’ha ripagata male, perché da allora non lo saluta nemmeno. Però lei gliel’ha detto, quella volta, «come, tu stai con i morti, e io ti faccio schifo. Va bene sotto, hai anche ragione, ma sopra sono pulita». E si accompagnava con gesti.

Le luci diffuse non arrivano nel parcheggio, ed è meglio. Ombre qua e là dietro le macchine.

Occhialino sta con una nuova ragazza da due o tre mesi; deve essersi perso la testa, perché non la vede che è pallida in una maniera come non si può.

Non si affretta mai a tornare a casa, perché fuori del recinto dell’ospedale si dovrà rimettere gli occhiali, e vedere.

Arrivano gli odori dalle cucine in tutto il parcheggio, va già meglio, tanto ha quasi smesso di mangiare; a differenza di molti suoi colleghi non beve neppure.

L’abusiva sta male, perché di solito non la vedi mai seduta e adesso è proprio accoccolata, dietro un suv. Le dice “ehi”, il massimo, ma quella non risponde. Se dorme, va bene; se è morta, gliela porteranno domani su di una lettiga d’argento, diciamo cromata. Se almeno rantolasse sarebbe più tranquillo; invece deve aver bevuto. Una chiazza piccola di vomito non significa molto. L’abusivo chissà dov’è.

Un’ambulanza suona in sordina la sua marcia trionfale preferita: Giuseppe Verdi era un grande; è una coincidenza che l’abusiva si chiami Aida. Si era però messa d’accordo con l’autista infermiere per mandare un po’ di musica. Domani si saprà come sono andate le cose, non si deve proprio mai aver fretta.

Al cancello si è rimesso gli occhiali e il mondo peggiora vistosamente. Il guardiano glielo dice in anticipo che domani avrà altro lavoro. Dal finestrino ha detto a tutti – s’intende: il guidatore ha detto – che c’è un altro barbone in fin di vita, se è un barbone. E bello non è.

Due disperati morti in così poco tempo sembra troppo: sembra, in verità dovrebbero essere di più. La vita è una catena di smontaggio; gli viene da ridere per la battuta, ma gli torna subito il sospetto di essersela detta altre volte. Alza le spalle e ride lo stesso, ma si trattiene a metà. Autocritica, autocontrollo, autocensura, auto un accidente. Gli viene da grattarsi, e lo fa. Tanto per dirsi buona notte a se stesso.

Il mattino arriva come può arrivare un mattino. Intanto, di diverso c’è che piove, e l’umidità fa fermentare gli odori. Non quelli della terra – chi li sente più – ma quelli degli abitanti. Sarà meglio che lui stesso si faccia un bel bagno, “un bagno” basta, togliamo “bel”, che è superfluo. Lo spazio è nel retro; meglio qui che a casa.

Allora è morto anche il secondo.

Non ci vuole tanto lavoro per capire subito, poi bisogna aspettare i risultati delle analisi. Glicemia, glicemia. Zuccheri, zuccheri. Diabete forse. Fulminante, quasi. Come fa, uno che non mangia quasi, a morire di zucchero.

Due casi così, in ventiquattr’ore. Si son forse messi a mangiare tutti di colpo, alla faccia dell’inedia. Si scoprirebbe che c’è un ristorante quasi chic, tutto per loro. Qualcuno avrà esagerato col sale, di sicuro con lo zucchero. “Bisognerà controllarlo quel ristorante”: è una burla, ma qui ci casca bene.

Non gliel’hanno detto, e la vede da solo: in fondo alla sala di necrotomia c’è la sua abusiva. Allora è l’ultimo ad averla vista viva, o quasi, ancora calda, se si può dire. Se lo terrà per sé.

È scomparso anche l’abusivo, gli hanno detto entrando. Irrilevante; che sia dove vuole. Mica piangerà. Ma non si sa mai.

Lo zucchero sta diventando un problema tecnico. Saranno sbagliati i reattivi, sono forse scaduti. Con un’altra confezione il risultato non cambia.

L’inquisitore, che è un duro e non sbaglia mai quando addenta un polpaccio, più che un segugio è un cagnaccio, e glielo viene anche a dire. È piuttosto un interrogatorio, con delle code mentali non dette, ma certe, da tutte e due le parti.

«Dottore, sa quei coperchietti dorati, quelli delle scatole del miele, dei vasetti per meglio dire, ne ha visti in giro?» (°°° Una domandina così, per entrare in argomento. Tasto il terreno e poi vediamo.)

«Sì, davanti ai contenitori comunali delle lordure.» (°°° Perché dovrei dire di no, tanto è vero, e possono vederli tutti. Anche lui comincia con la solita domanda scema, di chi non sa niente e ci comincia a provare.)

«Dove esattamente?» (°°° Comincerò a essere circostanziato, debbo sapere che cosa sa.)

«Non lo so. Non potrei sapere.» (°°° Adesso non gli dico più niente, così gli vengono dei sospetti, sì, però mi conosce da tanto tempo, e ha paura di una fatica inutile.)

«Proviamo a indovinare?» (°°° Io sono proprio un gatto e lui un topo cieco; e poi, è così che dicono nei film americani: «proviamo a indovinare?!»)

«È meglio andare in giro, per vedere bene.» (°°° Il bello sarebbe fare l’indagine insieme al segugio. Io sarei come un gatto superiore, lo porterei nei luoghi sbagliati, trascinato qua e là dove vuole lui, senza far capire che conosco posti. No, che ci vada da solo.)

«Io ci vado. Ci mando. Ci trovo. E poi che facciamo?» (°°° Qui ti voglio, lo sai che poi ci torno sopra. Che facciamo?)

«Che facciamo? Gli operatori ecologici, per esempio, le possono andare bene?» (°°° Ho già abbastanza da fare con i miei di residui, che s’arrangi.)

«Il caso è serio. Qui cosa risulta?» (°°° Ci mettiamo su di un piano di parità professionale. Però in America i confronti professionali li fai con quelle ragazze così intellettuali, così fuori di testa appena le tocchi, uno schianto appena entri nel loro ufficio: «cosa fai questa sera», «peccato, impegnata», «allora domani», «ma no, a pensarci bene questa sera va bene»; e domattina in ufficio tardi.)

«A chi pensate, a cosa vi riferite, signor Maggiore.» (°°° Meglio passare al “voi”, per mostrargli sicura serenità. Non ha detto qual è il suo problema, debbo stare attento a non far capire che ho capito, così lui crede di capire: una noia.)

«Ci sono dei disgraziati. Uno li ammazza per farli star meglio...» (°°° Una ipotesi, da sviluppare. Chissà se lui, come dottore, ci ha pensato.)

«Mi deve fare delle domande precise, altrimenti facciamo confusioni per niente.» (°°° Era chiaro fin dall’inizio. Però basta. O se ne va via da solo, o lo mando io.)

L’inquisitore è un duro, lo sanno tutti. Allora gli spiattella sotto il naso, con baffi, e peli che vengono fuori dalle narici, i risultati delle analisi: Crisi Diabetica Fulminante!

Il segugio se ne va con l’aria minacciosa verso qualcuno che non c’è. Come per dire «le cose non finiscono qui».

Anche Occhialino se lo dice: «Tutti finiscono da me, che poi sono sempre delle cose.»

Quando è arrivato il terzo, verso sera, un altro diseredato (di cosa poi, di quale eredità), l’ha saputo che era quasi notte, e fuori orario; non era morto, l’hanno ripreso per un capello, si leccava ancora i baffi e delirava su quanto è buono il miele; ma non è un delirio, e mette in confusione gli altri.

L’ha riferito, confessato come un sogno, col timore tremante di perdere qualcosa.

«Uno col mantello nero, gira per i vicoli, nei parcheggi abbandonati nella notte, con un gran sacco pesante, che tintinna perché ha del vetro dentro.»

È anche una gran marca, miele puro, come si fa a resistere. E poi l’uomo nero è onesto e giusto, dà vasetti a tutti. C’è quella etichetta famosa che li regala, e lui li distribuisce. Siccome l’hanno beccato subito con le mani nel sacco dice che non c’entra niente, voleva solo fare del bene. Al produttore e al consumatore.

Quando il dottor Occhialino si rimette gli occhiali uscendo dal cortile vede dovunque un mondo di uomini neri, con grande mantello buio.

La sera prima non aveva trovato la sua nuova ragazza a casa; e pensare che le aveva portato una gran confezione elegante da dodici vasetti.

Lo sa: se una donna scompare così senza tracce, non torna più.

Tanto di perso, tanto di guadagnato. Qualche affamato li mangerà. Nulla va mai perduto.

Commenti

  1. Una scrittura incalzante, che ti prende. Mentre procedi ti si apre un mondo, e vuoi conoscerlo

    RispondiElimina
  2. Una scrittura che ti prende, mentre procedi ti si apre un mondo e vuoi sapere di piu

    RispondiElimina

Posta un commento

Post più popolari