FESTA DEL CINEMA DEI DIRITTI UMANI COSENZA 15/16/17 SETTEMBRE 2022. INTERVISTA CON IL REGISTA ALESSANDRO NEGRINI DIRETTORE ARTISTICO DELL'EVENTO

di Laura Bonelli

Nasce a Cosenza la prima edizione della Festa del cinema dei diritti umani realizzato da Stella Cometa ODV e finanziato da Fondazione con il Sud. Il direttore artistico è il regista torinese Alessandro Negrini. Con lui si sono voluti approfondire i temi e gli impulsi di questo evento.








Come nasce questo progetto?

Ci sono alcune cose che accadono grazie ad incroci inaspettati, come spesso mi è accaduto nella mia vita. Stavo collaborando ad un bellissimo progetto con il Policlinico Gemelli di Roma - Art4ART - e che avrà compimento quest’anno: la creazione di un cortometraggio creato ad hoc da proiettare nella sala di radioterapia e chemioterapia trasformata in un immersivo micro-cinema. Silvia Superbi, che si occupava del fundrasing di Art4ART, aveva intercettato la mia vicinanza al tema dei diritti umani tramite altre iniziative a cui avevo dato il mio contributo. E così mi ha proposto di pensare ad un progetto che coinvolgesse l’associazione Stella Cometa di Cosenza con cui collabora e che si occupa attivamente e con grande energia di solidarietà sul territorio. Proposi allora un evento che unisse cinema e diritti umani: una festa che, partendo dal cinema arriva a celebrare i diritti umani insieme alla cittadinanza di Cosenza. E’ nata una bellissima sinergia, ed eccoci qua, nonostante gli inevitabili problemi ed uno sforzo enorme legati al pochissimo tempo che avevamo davanti, ci siamo riusciti e ne siamo davvero felici: nasce la Festa del Cinema dei Diritti Umani di Cosenza.


I diritti umani sono un tema caldissimo in questo momento... Non solo per gli immigrati dall'estero ma in moltissimi casi anche per la libera scelta di idee che stiamo vivendo all'interno del nostro paese. Cosa ne pensi?

I diritti umani sono un tema caldissimo per chi ne subisce le loro violazioni. Non per la nostra economia tantomeno per la grande informazione, che li reputa un argomento scivoloso, toccato spesso di sfuggita e con ampie amputazioni di notizie. La ragione è che parlare di diritti umani significa aprire domande che toccano direttamente noi, la nostra vita quotidiana, le nostre scelte politiche. In questa geografia dove la carta dei diritti dell'uomo, scritta oltre settant'anni fa, viene sempre più disattesa, ignorata, vilipesa - il rendere visibile l'invisibile, il ricordare ed il ricordarci cosa ci rende umani e cosa no è un'azione non più eludibile.


Che ruolo può svolge la cultura in relazione ai diritti umani?

Credo che, soprattutto chi fa il mio mestiere, non possa stare in silenzio. Il silenzio della cultura è complice, è parte dello stesso clima piccolo borghese, è cieca abnegazione verso il timore di perdere favori, strette di mano, commissioni e contratti. E’ - il silenzio degli intellettuali - come diceva Pasolini, l’anticamera del fascismo. E credo che la tua domanda rimandi ad un’altra, che ingloba la tua: quale deve essere il compito degli intellettuali e degli artisti? Mero intrattenimento? Spensierata creazione di bellezza?

Io credo che la cultura non possa essere solo mercato. Il sistema della cultura in Italia finora ha vissuto in gran parte di sussidi pubblici e di connessione con il potere politico, e questa rende la cultura anche poco coraggiosa nell’esporsi. Finendo col dimenticarsi di questo tratto vitale: Le opere d’arte, i film, i libri, le fotografie, non sono solo gingilli per i ricchi né oggetti di consumo di quella che viene definita “industria culturale”: l’arte serve a diventare cittadine e cittadini del mondo. Ma se a questo serve, perché dunque gli artisti e gli intellettuali tacciono? Perché si riducono ad essere cortigiani? Perché hanno perduto tutto il loro coraggio? Un coraggio che avevamo, e che abbiamo perduto quando ci siamo fatti convincere che diventare adulti significa accettare il mondo così com'è.

Quanto più grande è il nostro amore per la bellezza, gli esseri umani dentro questo mondo, tanto più grande è il desiderio di cambiarlo.



Chiostro di San Domenico, Cosenza


Cosa pensi a chi ti risponderebbe che l’essere artista e intellettuale può e deve includere la solitudine, l’estraniarsi dal mondo per creare bellezza?


La classe degli intellettuali e degli artisti è oggi una mera corporazione che alza lo sguardo solo ed unicamente se ad essere intaccati sono i propri interessi, vedasi le proteste contro i lockdown durante la pandemia. Ti rispondo con le parole di Petronio.

Nel suo "Satyricon", nella scena della cena di Trimalcione, tra sfarzose portate, i convitati - fatti di politici, parvenu, arricchiti, funzionari dello stato, mogli vanesie - discettano a ruota libera di politica, cultura, società, borbottando con luoghi comuni sulla decadenza dei costumi nell'epoca di Nerone, senza mai mettersi in una vera posizione di ampia critica.

D'improvviso, inaspettato, prende la parola Echione.

Echione era uno straccivendolo, mestiere umile ma molto rispettato in quanto gli stracci avevano una funzione molto importante: venivano usati per spegnere gli incendi.

E di colpo, lo straccivendolo Echione parla, ma lo fa rivolgendosi all'unico intellettuale presente al convitato: il retore Agamennone.

Echione, col suo linguaggio povero, guarda Agamennone, e gli chiede:

- "Perché, tu che sai parlare, non parli?"


Secoli e secoli dopo, sull'orlo di una terza guerra mondiale, con cento, mille altre invisibili Ucraine mai narrate, mai difese, mai armate - come i palestinesi, i curdi, i siriani) con un parlamento divenuto vuoto passacarte del governo e la democrazia paravento delle elites – con i diritti umani che vengono citati solo se a violarli sono i nostri nemici e non i nostri amici, in una entropia dell’essere umano volto solo verso il proprio ombelico, facciamo nostra e rivolgiamo la stessa semplice, denudante domanda di Echione agli intellettuali, agli artisti di oggi:

Perché "tu che sai parlare, non parli? Cosa ancora ti trattiene dentro questo infinito, storicamente complice, culturalmente colpevole - silenzio?"




Cena di Trimalcione


L'idea della "festa" è leggerezza... Si devono cominciare ad alleggerire certe posizioni?

Assolutamente no. La parola “festa”, che abbiamo voluto e scelto non casualmente, implica il radunarsi come cittadinanza, tutti, essendo il canto dell’umano e di quell’aggettivo che la “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo” pose dopo le parole “diritti umani: “inalienabili”.

I diritti umani sono, e devono essere, inalienabili. Svelare, e ricordare questo è motivo di celebrazione e non solo mera commorazione: come diceva lo scrittore Eduardo Galeano, “ricordare” togliere dall’oblio le vite invisibili, dal latino re-cordis, ritornare dalle parti del cuore.

Creare un terreno, una piazza, un luogo dove l’amnesia obbligatoria alla quale vogliono destinarci viene sospesa e spezzata, è festa.

E poi, forse, ha a che fare con un aspetto della mia indole, da un lato appassionata e presente nella lotta e nell’attivismo, dall’altro irrimediabilmente festaiola e sempre alla ricerca di un festeggiamento della vita.



 La festa vede in programmazione alcuni film. Perché hai scelto proprio questi?


I film li abbiamo scelti in collaborazione con il Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, col quale ho collaborato negli anni scorsi, in giuria e poi come selezionatore. Una realtà preziosissima capace di scovare e portare al grande pubblico film che sono spesso clandestini.

Il filo rosso che abbiamo scelto si chiama “Derive e approdi dei diritti umani”, come un viaggio che percorrerà di giorno in giorno le storie dei diritti violati nei luoghi di origine, nei viaggi, e nei luoghi di arrivo. Ma anche storie di speranza, dove l’accoglienza e la solidarietà fanno riapprodare nell’umano le vite delle persone.

Nella nostra Festa avremo il film “Revenir”, un viaggio a ritroso dove il regista Kumut Imesh si ritrova ad essere sia migrante che regista costretto a fuggire dalla guerra civile in Costa d’avorio nel 2004. Ci sarà il film “Il cielo sopra Riace” di Damian Olivito, insieme a Domenico Lucano che sarà nostro gradito ospite, a raccontare l’incredibile esperienza di solidarietà messo in atto a Riace. 
Il regista Andrea Segre presenterà il suo film “L’ordine delle cose", Premio Speciale per i Diritti Umani, Menzione Speciale alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia., che ha filmato, ripercorrendole, le tappe del suo viaggio alla ricerca della speranza. Speranza che viene anche raccontata nel film “Il cielo sopra Riace, del regista argentino di origini calabresi Damián Olivito.
Parleremo anche di caporalato, in un connubio tra musica e immagini, con la presentazione del videoclip “La manna dal cielo” da me diretto, sulla canzone dallo stesso titolo del cantautore Lucio Matricardi.




Alessandro Negrini


Sei un artista ed un intellettuale che non teme di schierarsi e coraggiosamente fa sentire la sua voce. Come coniughi la tua creatività ed il tuo attivismo nella difesa dei diritti umani?


Oggi di fronte all’intellettuale c’è un esercito di menzogne, pigrizie, ignoranze e opportunismi e che proprio l’intellettuale o l’artista può sgretolare, raccontando lo sguardo degli invisibili e dai vinti di ogni tempo. Che sono Storia. Ma invisibile. Mi ha colpito molto, in questo , il conformismo ossequioso legato al racconto della morte della regina Elisabetta II. C’è una preoccupante voglia di cortigianeria nel mondo della cultura, che già si era manifestato nella santificazione di Mario Draghi. Un innamoramento per l’uomo, o la donna, che mai si è dovuto confrontare col popolo, se non nelle forme del suo atteso ossequio. Forse è dovuto al fatto che ci siamo abituati talmente tanto ad essere trattati da sudditi, dove la nostra voce viene considerata inessenziale al potere, che abbiamo finito , nella repubblica, con l’innamorarci di un monarca deceduto. 
Nel mondo di oggi il potere si maschera da destino
E diventa la narrazione più potente che ci dice ogni giorno di recitare, proprio come in una fede, questa preghiera: ringraziamo questa società, fondata sull’ingiustizia, perché è la migliore che possa esistere. Ma questa narrazione vive grazie al rendere invisibili proprio queste ingiustizie, questi saccheggi.

Io credo che il ruolo della cultura sia invece quello di cercare il riscatto della Storia invisibile, ricordare che i diritti si conquistano, non si regalano e al contempo, creando bellezza, sbugiardare l’infamia di un potere che cancella con il gomito ciò che firma con la mano: produce guerre che si burlano dei suoi impegni di pace, sottoscrive accordi di libero commercio ma pratica il protezionismo, avvelena l’aria e l’acqua e la terra mentre a noi elettori giura di proteggere l’ambiente. E tende a nascondere le sue azioni riverniciandole con parole usurpate. Pensa, ad esempio: nel 1974 i Paesi sviluppati s’impegnarono a destinare lo 0,7 per cento del loro Prodotto Interno Lordo agli aiuti ai cosiddetti Paesi in via di sviluppo, che andrebbero chiamati “Paesi depredati”. Come dice lo scrittore brasiliano Millor Fernandes, coloro che si mangiano il formaggio sono così generosi da distribuire i buchi. Ma nemmeno quel 0,7 arrivò, ma un misero 0,1 per cento. E in tutto questo circo della menzogna gioca un ruolo pesantissimo il silenzio degli intellettuali da un lato, e l’ossequiosità della stampa attenta a non far venire il prurito ai padroni delle loro testate, che a loro volta non vogliono far venire il prurito ai referenti dell’unica religione imperante: il dio Mercato.


Pensi che vi sia ambiguità anche nell’utilizzo della parola solidarietà o, in questo caso, dell’espressione diritti umani?

I diritti che sono per loro definizione universali, quindi dovrebbero valere per tutti, anche quindi per i profughi, anche per i curdi, i palestinesi, i tibetani, i ceceni, i neri e gli indiani d’America e via elencando – non sono per l’Occidente il fine, ma un mezzo: si adducono, si invocano, si fanno valere per i nemici, per non farli valere per gli amici. Si fanno valere per Cuba, imponendo in nome di essi, un blocco economico rovinoso che dura ininterrotto dal 1962, ma non per la Giunta militare dell’Argentina guidata da Jorge Videla, non per la sanguinaria dittatura di Pinochet in Cile, non per quella orribile di Rios Mont in Guatemala, non in Honduras; non per l’Arabia Saudita, non per l’Egitto di Al-Sisi, non per la Turchia di Erdogan. L’unica voce autorevole che con coraggio si schiera contro la dittatura del Mercato e per la pace è quella di Papa Francesco.

Al contempo, credo che sia nostro, mio compito, a fianco della denuncia, coltivare il sogno vissuto come diritto universale. Ricordo un racconto di Fernando Birri, meraviglioso regista argentino, raccontava un suo incontro con dei minatori che perdevano, in pochi anni, i polmoni e la vita sempre in nome del profitto altrui. Passò tutta la notte a bere con i minatori, e quando ormai mancava poco al grido della sirena che li richiamava al lavoro, uno domandò: E adesso, fratello, dicci com’è il mare. Perché nessuno di quegli operai aveva mai visto il mare, e forse mai nessuno sarebbe andato a vederlo.

Questa è la prima sfida nel mestiere di artista e di intellettuale. Non potei far altro che portare uno sguardo ampio, che arrivi davvero il mare, anche se lontanissimo, e trovare le parole che siano capaci di bagnare gli occhi degli invisibili e di tutti noi, e magari, di contagiarci col sogno di raggiungerlo, davvero, quel mare.

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