ALTRE DICERIE DELL'AGNELLO E IL LUPO

di Bruno Pompili

Dalle carte recuperate del mio maestro e amico Bruno Briganti, già autore di L’animale sbagliato («zenzeroetabacco.wordpress.com», 2012; «priamoedit.it/ blog.html», 2015). Suggeritore del mio Animali della quinta notte (Carabba, 2007).


Le loup et l'agneau' by Gustave Doré, from the book 'Les fables de La Fontaine' by Jean de La Fontaine, 1866.



Il luogo è qua e là apparentemente ristretto. Il torrente c’è, ma le sponde sono accessibili, quasi piatte, da poterci stare comodi. Un luogo di conversazione, più che altro.

L’agnello e il lupo vi si trovano bene; compatibilmente con l’età. Hanno una vita nettamente separata, ma in diversi momenti della giornata, e la sera tardi, hanno ampio modo di conversazione: se così si può chiamare un dialogo anche spigoloso, spesso ironico, o con malcelata violenza. Tutti e due sanno che non ci sarà sangue, salvo improvvisi, paventabili o inattesi abbandoni alla tradizione e ai simboli.




1. Come dire buonanotte

Agnello — Non cominciare a spingere. Vedi, quando arriva sera senti freddo, e vuoi mettere in caldo – dici – «la zampa ferita». Devi capire che quella ferita non c’è più: hai freddo a causa degli anni.

Lupo — Tu credi di essere intelligente e questo mi irrita, veramente.

A — Non sono l’animale adatto per scaldarti.

L — È vero; non sai far niente, non sei utile a niente, te e tutta la tua famiglia.

A — Adesso ricominci con questa storia di animali, detta e ridetta. Tu personalizzi sempre. Te l’ho spiegato tante volte: non tirare in ballo babbo e mamma. Non è una questione di famiglia, siamo io e te, e se abbiamo qualcosa da dirci ce la diciamo.

L — E va bene. Adesso è tardi e sono stanco; anche se ho fame e vorrei persino arrivare a chiudere questo discorso, una volta o l’altra.

A — Lo capisco e mi viene da preoccuparmi; dovrei preoccuparmi; sarà meglio che cominci a preoccuparmi. Domani comincerò a preoccuparmi. Con questo suo sbadiglio mi pare che gli sia passata anche la fame, o non ha la forza per correre, non dico combattere nella notte… gli anni contano.




2. Per parlare seriamente

L — Questa notte ci ho pensato a fondo. Un po’ sognavo e un po’ ragionavo. Noi, dico noi, questa questione dovremmo deciderla. Mi suggeriscono in sogno: dirimerla.

A — L’inizio non è buono, benché l’abbia già sentito molte volte, forse troppe. È vero, la storia è troppo lunga. La sintesi è una cosa meravigliosa, a saperla gestire. Sì, perché se non sei lucido, perdi un mucchio di sostanza. Se sei prolisso (parola suggerita anche a me in sogno) però alla fine, con un poco di pazienza, la sostanza vera viene fuori.

L — Allora cosa vogliamo fare.

A — Parliamo!

L — Tu sei troppo piccolo e indisponente per dare ordini.

A — L’inizio non è buono; questa giornata sarà lunga. Più invecchia e più è ripetitivo. Sì, sono piccolo ma non significa niente. Ci sono altri, grandi e forti.

L — Vorrei proprio vederli.

A — Oggi vuoi rischiare. Vuoi vedertela brutta. Non dire che vuoi proprio vederlo perché ti arriva il peggio del peggio.

L — Secondo me sei proprio stupido. Uno che parla troppo e mi vuole imbrogliare. Oggettivamente: mi piace come parli.

A — Tu qualche confusione la fai. Una volta non eri così, ma i miei ricordi non si spingono tanto lontano. Mi pare che tu stai invecchiando rapidamente. Mi dicono che dovrei dire “tu stia”: è vero, qui non cambia però la sostanza.

L — Secondo te, io dovrei far cosa con te.

A — Ci sarebbe un’altra domanda?

L — No, rispondi a questa, se no tu fai dei discorsi lunghi.

A — Te lo dico francamente, ma tu non ti devi arrabbiare, e non te la devi prendere con me. È passato del tempo; qui nessuno ci ascolta; tu hai i tuoi problemi; io ho i miei; che sarebbero riducibili se tu non avessi sempre questa idea che la violenza è necessaria, inevitabile, anche logica e naturale; che insomma alla fine tu mi devi mangiare.

L — Ah, ecco, hai fatto bene a dirmelo perché quasi quasi me ne dimenticavo.

A — È vero che sono stupido. Potevo star zitto. Adesso devo recuperare. Com’è questa storia che tuo padre ce l’aveva con il mio, o con mio nonno; avete litigato e dopo è rimasta questa necessità.

L — Me l’hanno raccontata, però adesso ho un po’ perso il filo. Sì, ecco: tu hai parlato male di me.

A — Non è possibile; quando sarebbe successo?

L — E che ne so io. So che è così. È proprio vero, hai detto delle cose orribili, su di me e sulla mia famiglia… che andiamo in giro ad ammazzare la gente. Dimmi quando è stato.

A — E che ne so io, tu lo devi dire. Ma se posso aiutarti … io non ero ancora nato.

L — Adesso mi fai arrabbiare, che razza di risposta sarebbe questa. Fai, dici, cancelli, ripeti, e poi dici che non c’eri. Intanto spostati perché debbo bere e non mi piace l’acqua torbida. Cosa mi guardi. Cosa mi stai a guardare.

A — Questa non me l’aspettavo, te la sei ricordata.

L — Ho detto spostati, laggiù.

A — Ecco, vedi che sei stupido: vuoi bere là e io sono qua; l’acqua è pulita, bevi se vuoi bere e non tirar fuori storie vecchie e troppo insensate. Di’ quel che devi dire, fa’ quel che devi fare. Vecchio sì, d’accordo, ci vuole pazienza, ma non puoi ripetere le cose più sceme della tua famiglia.

L — Hai ragione, è una storia di famiglia. Se non me l’hai intorbidata tu vuol dire che sarà stato tuo padre.

A — Mio padre è morto! Basta.

L — È vero: tuo padre è morto. E mi dispiace anche che forse c’entriamo noi per qualcosa…

A — Certo. Ve lo siete mangiato.

L — Questo mi sembra strano: per l’acqua intorbidata non lo faremmo mai. Per le dicerie, forse. Ma lui non c’entrava, perché sei stato tu a parlare male di me, proprio di me… che alla fin dei conti sono un poveretto. Abbandonato. Una zampa ferita. Un freddo cane (so che si può dire). Anche fame, spesso, benché abbia questa difficoltà a masticare, anzi proprio per questo. E poi vieni tu a dire che non c’entri, che non sai niente, che tuo padre è morto, e che è colpa mia! Mi sento da piangere.

A — La situazione precipita. Quando fa così poi trascende, diventa violento, dice una cosa e poi un’altra, ripete quel che ho detto io. E crede che l’ha detta lui. Anzi il contrario: mi faccio confondere anch’io.

L — Adesso dove pensi di scappare. Dove credi di sfuggire.

A — No. Guarda. Non lo devi fare. Non è così che si fa. Non più. Siamo già passati alla storia. Tutti e due. Non ne hai bisogno.

L — Ma se io ti prendo, ti prendo. E poi devo andare avanti, altrimenti chi sono io, che faccio.




3. Il peso dei simboli

A — Adesso ti spiego. Noi siamo già nella storia, nella memoria del mondo. Le cose si sanno. Una volta c’erano dei problemi. Noi, adesso, qui, siamo dei simboli. Adesso ci fermiamo. Parliamo. Conosciamo i problemi del mondo. Possiamo fare altro.

L — Non mi freghi. Io so cosa devo fare, te con quest’aria da filosofo cosa credi, sempre a rompere, a zampettare nell’acqua che devo bere, a dire tutte quelle storie, che sono vecchio, che non ricordo, che faccio confusione, che siamo una famiglia di sanguinari. Ti prendo e ti faccio vedere.

A — Eh. È andata! Brutta storia. Una storia che si ripete. Con questo vecchio deficiente che non capisce i simboli, e ci debbo rimettere io. Senti, possiamo ragionare! Pensa un momento! Non fare così. Tu sei buono, credimi. Noi siamo buoni!

L — No. Neanche per idea. Anzi mi sento ringiovanito, e so cosa devo fare. Adesso non parli più!



C’è un appunto finale nelle carte di Bruno Briganti: «La ragione del più vecchio è sempre la peggiore».

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