LA VERA STORIA DI CALEB E GIOSAFAT, LO SCONTROSO E IL TRANQUILLONE

di Stefano Valente




Scuola di Andrej Rublëv (1410-1430)
Icona della Natività 
Ermitage, San Pietroburgo



Quando Gesù bambino era lì lì per nascere, molti e grandi segni erano comparsi in cielo e in terra: una stella cometa svirgolava il firmamento, gli usignoli cantavano di giorno, i profeti parlavano e annunciavano a dirotto, senza tregua.

Vi era pure chi giurava che tre potenti e saggi re s’erano messi in marcia dall’Oriente. Erano monarchi tanto anziani e tanto sapienti delle lande lontane al di là della Caldea; avevano lasciato reggia, ori, tranquillità e ogni altro agio, per intraprendere quel viaggio difficile e insicuro dal Paese del sommo Zoroastro fino alle rocce e ai sassi di Giudea. Solo per rendere omaggio al nuovo sovrano che stava per venir al mondo. Perché le astromanzie ed i loro oroscopi erano concordi: un bimbo sconosciuto, di una misera coppia fuggitiva, partorito dentro una mangiatoia, sarebbe divenuto il nuovo re dell’intera umanità.

Perciò le carovane dei tre savi signori avanzavano incessantemente lungo i deserti. Sul cammino che la cometa lassù in alto tracciava per loro. Dopo giorni e giorni, tra mille fatiche, insidie e soprassalti, sarebbero giunte in un minuscolo villaggio. Quello che oggi tutti ben conosciamo, ed è Betlemme (pur ignorando – almeno i più – che quel nome vuol dire «Casa del Pane»).

Eh già: come spesso accade gli uomini sono gli ultimi ad accorgersi dei veri prodigi; diffidano, litigano fra loro per inezie e si perdono in baruffe senza alcun valore; se non vedono non credono, e anche quando vedono parlano di miraggi e di allucinazioni. Era infatti un prodigio – il prodigio dei prodigi – quello che la gente di Betlemme stava per accogliere sopra il suo suolo brullo, in una notte fredda da spaccar la pelle delle mani, in una capannuccia. Tutti intenti a macinare, trasportar farine, lavorare azzimi, a quei giudei neanche saltava il ghiribizzo di alzare il naso al cielo, e così rendersi conto che la chioma scintillante aveva scelto infine di brillare esattamente sopra le loro teste.

Com’è, come non è, per fortuna nel mondo non ci sono solo gli uomini. Ecco dunque che gli Scontrosi e i Tranquilloni, e in particolare due fra questi, avevano intuito, loro sì, che qualcosa di davvero portentoso stava per succedere.

Caleb e Giosafat, si chiamavano. Come ogni altro scontroso e tranquillone – o meglio: come ogni altro abitante di Betlemme –, anche loro lavoravano al mulino e per il mulino. Ora a spingere la grossa pietra che triturava e sminuzzava il grano, ora a caricarsi di sacchi, spostando frumenti a destra e a manca.

Caleb, lo scontroso, tale e quale i suoi simili, era famoso per la testardaggine – ma poi tutto sommato non disobbediva mai. Giosafat, il tranquillone, mugugnava e mugugnava, certo – com’è normale per i Tranquilloni –, però era la pazienza in carne e ossa. Entrambi erano molto amati dai bambini, che spesso li attorniavano e seguivano durante il lavoro, e giocavano e si divertivano con l’uno e con l’altro. Potevano far loro scherzi, tirargli le orecchie addirittura: a Giosafat e Caleb piacevano l’allegria e le urla dei piccoli, il loro cuore se ne riscaldava.

«Quella stella strana, così luminosa che sembra d’argento, su nel cielo», fece una sera Giosafat a Caleb. «Te ne sei accorto? È identica alla voglia che hai sulla fronte da quando sei nato».

«Per tutti i tafani!», esclamò Caleb, lo scontroso, chinando il capo e specchiandosi nell’acqua di un abbeveratoio. «Hai proprio ragione...».

Rimasero in silenzio per degli attimi lunghissimi, persi in chissà quali pensieri. Poi Caleb volse uno sguardo interrogativo al compagno tranquillone:

«Significherà pure qualcosa. Per forza. Io non ci credo a caso e coincidenze...». Sbuffò forte un paio di volte. «A te che frulla in mente, Giosafat?».

«Mah...», mugugnò piano l’altro – l’amico per la sorpresa, col suo tono, rischiava di svegliare gli Scontrosi e Tranquilloni addormentati lì nei pressi. «Mah...», o forse «Muh…», riprese a mezza voce, con complicità. «Meglio non farsi sentire, Caleb...».

E così il tranquillone Giosafat rivelò a Caleb lo scontroso di essere sicuro: erano mesi che oracoli e indovini scrutavano in alto e non facevan altro che ripetere «il Re dei Re sta per arrivare»; anche se in pochi li ascoltavano parlavano di «Messia», e che «il tempo dell’attesa» era finito. Da parte loro, i sacerdoti al tempio – e ciò, secondo il tranquillone, valeva per conferma – mettevano in guardia il popolo dalle «dicerie» e dalle «superstizioni», mentre evitavano di guardare gli astri e le costellazioni.

«Li hai veduti, Caleb? Vanno in giro a occhi bassi bisbigliando i salmi. Se li incroci per via non si fermano più, neppure salutano – non riesci a guardarli in volto».

Un comportamento anomalo, sì, sbuffò e convenne Caleb. «E quella stella che pare un gioiello...», aggiunse sollevando il collo per sbirciare fra una crepa della tettoia. E se ne restò a quel modo, rapito a fissare il firmamento. Gli venivano in mente altre immagini, e sapori, e suoni: la rosa rossa che era sbocciata in mezzo ai rovi, in pieno inverno; le cicorie dolcissime scovate giorni prima fra il pietrisco; il cinguettio alla rovescia degli uccelli – quelli diurni a gorgheggiar la notte, i notturni al mezzodì...

«Una meraviglia», sentenziò allora, serio e grave, Giosafat. «La meraviglia delle meraviglie… Sta per accadere, amico mio, nel nostro villaggio».

«Sì, dev’essere così. Non può essere che così». Lo scontroso annuì più e più volte. Poi, scrollando il suo testone, mormorò con amarezza:

«Ma gli uomini sono ciechi. Quando verrà la Benedizione, loro non la vedranno».

Giosafat, il tranquillone, a quel punto mugugnò – e sembrava stesse sorridendo –:

«Ci penseremo noi, Caleb. Ad avvisarli ci penseremo noi...».


E finalmente giunse la notte delle notti, la più importante di tutte. Libri, astrologie e profeti avevano pronosticato il giusto. La verità è una stella che balena dentro il buio.

Una giovinetta dagli occhi di latte e giaietto, e suo marito, un umile falegname con grosse mani capaci a un tempo di intagliare il legno e accarezzar colombe, trovarono rifugio sotto un tetto di travi stortignaccole, fra fieno sporco e sfilacciato e mucchi di letame. Qui (più tardi uno dei tre monarchi dei regni zoroastriani dirà che «i diamanti si nascondono nell’ultimo posto in cui guarderesti»), qui, in quell’abituro che era pura mancanza e povertà assoluta, nel cavo di una mangiatoia, la fanciulla, Maria, diede alla luce il bimbo che avrebbe riportato l’amore in un mondo divenuto troppo gelido.

E gelida era quella notte. Però né il bambino né la madre e il padre avvertivano il freddo. E neppure tutti gli altri – mugnai, pastori, contadini, donne e uomini, grandi e piccoli – richiamati dai ragli possenti e dai tonanti muggiti di Caleb e Giosafat. Quasi che il fiato di scontroso e tranquillone, lì distesi a respirare sui piedini di Gesù per dargli tepore, riuscisse a riscaldare tutto e tutti: persone, animali, Betlemme, la Giudea, la terra intera.

Nella «Casa del Pane» nasceva il Re dei Re – l’unico pane in grado di sfamare corpi e anime. Venerato dai sommi e dai più miseri, ma soprattutto compagno degli ultimi. Di chi avrebbe continuato a sudare trascinando i sacchi di frumento, o l’aratro, o la ruota di granito della macina.

Anche dell’asino e del bue.

Di Caleb e Giosafat.

O, se preferite, dei due amici scontroso e tranquillone.



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