SE SI PUO' DIRE, ALMENO PER OGGI, LETTERATURA

di Bruno Pompili





Alex Levin, Still life with books and glasses (2005)






(per voce sola)


Se si può dire, almeno per oggi, letteratura


Non so, non capisco; sento i suoni non collego le parole; vedo una storia non incateno il senso; leggo una frase e non sento la fine; immagino che sarebbe un sogno e non intravedo risveglio perché non mi vorrei svegliare. Forse ho anche paura.

Tu mi dici e io non ci sono; mi scrivi e non ti leggo; mandi segnali di fumo e il vento li confonde; sono gridi e non più parole, credendo che siano più efficaci: non è vero, il silenzio a lungo andare si autocancella, a favore del sospeso indefinito.

È allora che entrano in scena i falsari, i venditori di cenci, gli allevatori di tarli, i distributori di indifferenza: genere sempre appetibile e di naturale gratuità (salvo disegno imprevedibile).

I contrabbandieri hanno piantato una bancarella sulla pubblica piazza; gli imbonitori sono d’accordo che i tempi sono difficili e bisogna sopravvivere; l’adattamento alle circostanze è la strada per modificarsi e replicarsi.

Il consumo del dire non può svanire né peggiorare oltre un qualche limite, in bilico anch’esso: dipende cosa accettare come minimo essenziale, per esempio l’alfabeto.

Ne nascono diversi e sono in concorrenza: non si può sapere prima chi vincerà dopo. Devi correre i tuoi rischi, la storia è piena di sconfitte che non hai potuto raccontare per un difetto del tuo lessico.

Quando mi hai detto «non si capisce niente» e intanto hai però apprezzato cose che io non capisco, almeno una cosa si è chiarita: mi tengo per me il mio silenzio.

Si è consunto il tempo del cambiamento a favore del balbettio immobile, che non sa dire cosa succede.

Aspettare sì, ma cosa e fin quando.

«La folla cominciò a rumoreggiare perché mancavano le pietre per l’esecuzione.» «Qualcosa si troverà.» «Intanto prendiamo lui, per cominciare.»

Non bastava la luce del giorno, e si autorizzò la notte.

Entrarono in scena gli esecutori testamentari; e ognuno consumò qualcosa.

Il silenzio fu totale quando si presentarono gli analisti, a far emergere che la malattia era stata vista troppo tardi: ormai sarebbe cambiato il senso stesso della salute.

Per un tempo, tutto da scoprire. Senza inutile memoria, né possibile previsione.

A pulire per terra arrivò una squadra molto pallida, il cui compito fondamentale era cancellare scritte e manifesti perché i muri visibili fossero nettati, e chi se n’importa dei vicoli o dietro gli angoli. Basta quelli principali.

Questo era stato solo un segnale: così ci furono delle inspiegabili infiltrazioni nelle biblioteche pubbliche e poi in quelle private, anche i libri di scuola ebbero un accartocciamento, i cartoncini di qualche invito tenuto per ricordo di appuntamenti mancati: e ho pensato che doveva per forza essere un sogno, perché una cancellazione così importante non aveva ragione di intervenire sui foglietti privati. «Invece no, non hai capito che anzi è quella la parte più significativa.»

A pensarci bene, magari anche per un attimo di tempo residuo (posso averlo?) tutto era uno scatenamento immaginato, o una allegoria nel primo mattino.

Poi qualcosa si è precisato, se così posso dire, se sono lucido, se non sono troppo invecchiato, quasi d’improvviso, ma in realtà ne avevo dei sintomi, abbondanti e li nascondevo a tutti.

Ho visto chiaramente, guardando fuori dalla finestra con una tazza di caffè fumante, prima di lavarmi il muso, con i ricordi del sonno dentro le orecchie, ho visto, girandomi, quei libri che studiano, teorizzano, fissano delle domande, e quella principale, oggi, scrive “che cos’è la letteratura?”.

Mi sono ricordato di una frase nel sonno, che insisteva sul fatto che certe domande si fanno sul corpo dei morti, una necropsia si direbbe. Ma la letteratura? «E perché no? Quanto dovremo aspettare per avere una diagnosi.»

È in quel momento che si è coagulata qualche nuvola e schiarito un ricordo. L’avevo detto diverse volte che l’importanza di un libro non è la storia che racconta ma la lingua che riga per riga vi si inventa.

E la tristezza di consumare (proprio: passare, occupare) il tempo con un libro per intrattenimento. Gracile quanto vuoi, per tranquillità. Per uso lontano dai pasti. O subito dopo.

E perché allora abbiamo passato ore per capire una frase, un mese per una pagina, e non era bastato. Era forse così la letteratura…

Perché abbiamo impiegato dieci anni a correggere e rivedere un libro che non avremmo neanche voluto pubblicare.

È vero che mi ha scritto il mio editore per informarmi che hanno venduto in un anno otto copie, quindi non mi terranno più informato degli sviluppi degli anni a seguire. Sono molto tranquillo, ora so che non era sbagliato il libro, l’editore era un abusivo.

Pare che sia il momento della verità, questa mattina, davanti il vetro di una finestra che dal nono piano vede anche il mare: quel libro (scarso, solo decente) che ho scritto io per uno che lo ha firmato col proprio nome, e tutti hanno detto quanto fosse interessante e davvero un bel libro.

Il mio, col mio nome in evidenza, anche troppo, onestamente (per dire) un gran bel libro, anche moderato per non offendere una bellezza stabile, un precipitato nel fondo della lingua, ma innovativo con una sintassi che grida. Il mio, col mio nome, un bel libro che non avrei neanche veramente voluto pubblicare. Aveva forse la malattia: non da non toccarlo, ma da non guardarlo da lontano. Si sfaldava da solo appena fuori dalla tipografia.

Quella telefonata, quest’ultima, di ieri, mi ha fatto veramente ridere, tanto che dall’altra parte mi chiedevano «ma sei tu, sei proprio tu?»; continuavo a ridere perché mi chiedeva se avessi scritto qualcosa di nuovo, e quando sarebbe il prossimo libro.

Sì, ho risposto che mi manca solo il titolo, lo sto cercando da anni, tanto che era ormai troppo vecchia la scrittura.

Mi ha creduto.

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