NASCITA DI METATERPE, MUSA DELLA TRADUZIONE


di Bruno Pompili





Camille Corot, The Muse: History (1865 ca)



È stato un parto lungo, di una molto lunga e silenziosa gestazione, perché di muse – si dice – non ne nascerebbero più… e due negli ultimi cento anni sono già fuori logica, extra numero, oltre le possibili, sensate, aspettative. È infine benvenuto il consiglio a controllare i deliri degli ultimi arrivati fra di noi, che altre ne chiedono e sempre ne vorrebbero. Non hanno capito che non sono le Muse, loro, le luminose fanciulle, a creare l’arte ma è invece questa, l’unica, a evocarle e a renderle reali.

Qui almeno (sotto voce) non abbiamo il problema delle quote rosa; e per altro, una ventilabile, sommessa, timida illusione di una quota blu è subito schiacciata dalla maggioranza.

Ricordo a tutti che Kinnie è la “decima musa”, ormai vaccinata e ben collocata nella nuova sede, avendo quasi tutte optato per un luogo meno scosceso dell’Olimpo e dell’Elicona; in verità mancavano lì alcune comodità, nonostante le innovazioni della comunicazione a distanza e della attività domestica (impegno non molto gradito, a causa della mancanza diretta degli applausi: i semplici like appaiono loro un poco esangui).


Orbene. Per tradurre in parole comuni e visibili alcuni eventi, e mostrarne sia il peso che l’attualità, fingerò davanti a voi uno Stadio, che lo amiate o no, al momento dell’ingresso delle squadre in campo. Gioco del pallone.

Forse non tutti sanno che ad ogni singolo nome dei giocatori di casa (g. domestici, detti: home), scanditi dall’altoparlante, si alza un boato; quanto alla squadra ospite (visitors), soltanto qualche sparuto applauso, di qualche tifoso in trasferta, ingabbiato in un posto sugli spalti fra sbarre, guardati a vista da controllori.

[Costoro meritano due righe. Hanno sempre le spalle rivolte al campo, guardano il pubblico, ed è un primo aspetto perverso; come dire, un equivalente delle indagini critico-giornalistiche sui lettori, o spettatori, anziché sull’opera, alla stregua dei cronisti artistico-letterati che non potendo giocare si trastullano con dettagli, guardando le scollature delle tifose maliarde, o guardando quelli che guardano. Intanto sognano il pezzo per la redazione.]

Ecco la nostra squadra: umanistica, letteraria, artistica, teatrale, danzante, musicale, e via...

Calliope, un boato.

Clio, un boato.

Euterpe, Polimnia, Urania, Talia… boati, boati.

E poi il n. 10; dovreste saperlo, il 10 è sempre speciale; il meglio: da Pelé in poi... Il nostro 10: Kinnie, la musa del cinema, oriunda, di nazionalità mista. Boato super. Ci è più familiare, a tutti.

E infine l’undicesima! Metaterpe, un nuovo acquisto; applauso prudente, di puro incoraggiamento; abbiamo speso abbastanza, ma non se ne dice un gran bene; ha tuttavia i suoi aficionados, supporters, tifosi, mordus, ỏπαδούς ... Vedremo, vedremo. Sul campo: che è quel che conta.


Metaterpe, come le prime nove sorelle, proviene dal Mediterraneo orientale, dove i monti scendono dall’Europa e “si traducono” in mare.

Ci sono già state, per la stessa attività statutaria, protettiva dei sogni e delle arti, ci sono state delle parentele note, anche europee: μετάφρασις, traduzione, traduction, translation, dalle famiglie transducere e transferre, che avevano come occupazione fondamentale quella di trasportare, trasferire. In realtà la più esperta, la prima, Μετάφρασις, era un poco diversa, tendeva sempre a “esprimere in maniera personalizzata”, sempre in altro modo, in altro codice, e a volte oltre il consentito.

Le cose si sono complicate, perché le parentele in arte e in lingua e nei segni sono sempre molto intrecciate.

Vi era presente da tempo, nel giro, e acclimatata, una certa pecora nera, un poco esagerata, che faceva di cognome Επιτρέπω (consento) e provava una grande attrazione per la famiglia Μετατρέπω (trasformo): di lì, alla fine è discesa Metaterpe, per strade e attrazioni e giochi naturali.

Naturalmente se ne sono poi incuriositi i linguisti, specialisti vari, quelli che sanno, e allora hanno avuto qualche dubbio, qualche sospetto piuttosto, sull’albero genealogico.

Τρέπω vuol dire cambiare direzione, volgere, cambiare, da cui derivano i lemmi con τροπ– (come in tropismo);

Τέρπω vuol dire provocare piacere, contentezza, da cui i derivati con τερψ–.

È lì che si congiunge l’anello di contiguità e simiglianza (un vero piano naturale in evoluzione, si direbbe: Piano Naturale Contiguità Simiglianza, PNCS) condiviso con Ευτέρπη – si è dunque rintracciata la sorellina Euterpe (ricordate, quella del flauto) – e con Τερψιχόρη (Tersicore, quella della danza).

È così arrivata fra di noi Metaterpe, la trasformatrice; e lei stessa si modifica e cambia, è bellissima, uno splendore, un piacere, figura di grande fatica a volte, ma è lei: con contentezza, viene di lì; ha impiegato un tempo infinito a farsi vedere, a farsi riconoscere, ma ora c’è.

Un linguista integralista (bisogna capirlo: di solito lo bullizzano) può obiettare sulla confusione delle due radici; trascura, ma non ignora, che nel suo lungo sonno, nella infinita gestazione, Metaterpe ha avuto origine da un incontro particolare di geni, testimoniato nel linguaggio più comune da una semplice inversione di lettere, vale a dire da un naturale anagramma indotto e portato dalla sedimentazione del tempo.

Visto tutto l’insieme, ci possiamo – ritengo – accontentare. Possiamo dirlo all’unisono? Benvenuta, Metaterpe, a Te e ai Tuoi giochi: ne ho approfittato usandone in abbondanza (appena defilata) già redigendo la tua autobiografia, a cui contribuisco da umile ghost writer (scrittore fantasma). E senza compenso che non sia la paziente tolleranza verso un traduttore di enigmi, con problemini di identità e desideri di visibilità, ma in questo, proprio tu, non puoi fare molto per aiutare.


Compleanno e ricorrenze

Una nascita simbolica sempre comporta delle ricadute sociali, seppur poco appariscenti, intorno intorno.

L’attività del tradurre prima ancora che una professione (ne sarebbe il suo lato deteriore) è una fede, una religione almeno, con i suoi ministri del culto, i suoi teologi e i suoi parroci di campagna, i suoi anacoreti e i suoi mondani.

È una religione con una storia anche, e dei prodotti che vanno dalle grandi architetture, cattedrali firmate, a qualche pollaio disegnato in proprio: una volta questi erano i termini del paragone; ora i pollai, i porcili, hanno giustamente esigenze alte, non sono più l’esercizio banale dello studente di qualche scuola tecnica. Comunque sia, benché gli esempi siano sempre inadeguati o rovesciabili da altri, qualche riferimento utile si può sempre fare. Forse.

Pétrus Borel, in un suo articolo del 1844 (proprio così), afferma che «il tradimento e l’infedeltà della traduzione poetica sono diventati già da tempo un volgare aforisma»; anticipava di quasi un secolo il discorso sulla “bellezza dell’infedeltà”, in seguito chiaramente inadeguato anche se resta il tema e il testo più rammemorati in assoluto.

Non male come affermazione, da parte di Borel, un polemista scatenato che ha teorizzato l’invenzione artistica e la comunicazione tutta come “traduzione”, passaggio da “campi e sfere” a “campi e sfere” d’altri codici, morali, artistici, creativi, linguistici.

Mi pare tuttavia che sarebbe ancora poco per giustificare la sua chiamata in campo se non fosse che Borel ha tradotto, nel 1835, il già tradottissimo Robinson Crusoe, pubblicato a dispense poi raccolte in volume, in mezzo a rovinose quanto romantiche difficoltà; e se non fosse che nel 1959 l’editore Gallimard ha scelto la sua visione per la collana superprestigiosa della «Pléiade»: siamo cioè di fronte al record massimo di resistenza, di una traduzione romantica nel bel mezzo del 900, che stava fondando le “…logie” di una attività in espansione.

Quando si citano figure di tale portata si rischia di concedere qualcosa ad un generico trionfalismo, o almeno a uno “sguardo positivo sul mondo”: non è così.

Oh Metaterpe, nel tuo sonno amniotico non hai forse saputo che il nostro tradurre era fatto più di fallimenti ed incertezze che non di storiche glorie; sono i problemi a dominare, e un problema è veramente tale quando non ha soluzione; ne cito alcuni alla rinfusa: i ritmi e le rime, il gioco dei tempi verbali, io - tu - voi - Lei - Loro, che richiedono attenzioni diverse a seconda della lingua “export-import”, e qualche altro migliaio nella memoria di ogni tuo seguace.

Il problema fondamentale è particolarmente visibile, è un nodo rivelatore, quando si affrontano testi ad alta formalizzazione. Ovvero, quanto maggiore è la comprensione degli artifizi minori, dei giochi più perfidi, sovente involontari, della memoria retorica depositata in una tradizione del tutto metabolizzata, tanto più è improbabile un risultato tranquillizzante: non si avanza senza dubbi, sospetti, delusioni, accomodamenti, assurdità, come piccoli abissi incolmabili – cascasse Orfeo! – o con invecchiamenti precoci dovuti a un eccesso di adeguamento del testo originario al presente.

Alla fine, l’inevitabile paradosso: è più difficile tradurre uno scrittore molto codificato e installato nella memoria storica di una lingua che non le irrazionali e squartanti avanguardie (se conviene l’esempio) perché, qui, o ti butti o rinunci, o ti trasformi traducendo o ti ritrovi al culmine del non fatto, non detto, non capito, non vissuto; oh via... del non tradotto e basta.

Se gli esempi sono sempre disorientanti, falsi, o incoerenti e inadeguati per definizione, un frammento di verità, un relitto galleggia dopo il naufragio; farò allora ricorso all’aiuto di Henri Michaux; gli prendo in prestito un titolo per definire la traduzione: Misérable miracle. E accanto, due tentativi di riflessione:

«Non c’è errore in un miracolo»; come dire che quando il risultato traduttivo è definito, accreditato, andare a cercare fra le paglie e lo strame il fuscello storto è solo tempo perso, o impiego insensato.

Ma soprattutto:

«Miracolo è un errore dello sviluppo ordinato della natura.» E questo evento appartiene dunque all’arte e al suo disordine. Con la stessa fatica, nell’averli re-inventati, pari a quella dello scrivere primo.

Metaterpe, quando avrai preso confidenza con il nostro mondo (capisco che devi adeguarti con calma ai nostri deboli errari), guàrdati dai doppi sensi: noi ne siamo maestri, in tua assenza, o se ti distrai.

Si può con lo stesso moto tradurre o essere tradotti: vedi l’espressione «tradurre in carcere». Sarebbe un’ambigua molteplice mistura, o un destino.

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