IL VOLO DEL COLTELLO OVVERO GLI OCCHI DEL CONIGLIO



di Bruno Pompili




Neri Nannetti, Il lanciatore di coltelli



Il buio della sala trucca la presenza del pubblico. Non si può mai essere del tutto sicuri di quanti siano presenti; si può tener conto che sempre ci sono distratti, ritardatari, gente col biglietto che ha deciso di non venire; chi crede nel nostro lavoro, e chi non ci crede “cascasse il cielo”: una volta o l’altra succede che cada; o si alzi il mare. Oppure non ci siamo proprio noi, per improvvisa dipartita.

Io volevo fare il lanciatore di coltelli, fin da piccolo. Debbo dire prima di tutto che non sono nato o cresciuto in una famiglia circense, o di solitari artisti: nessuno di noi ha mai cantato, dipinto, fatto salti mortali, contorsioni, o ha fatto ridere, inciso, scolpito, domato leoni cavalli e “trenta elefanti trenta”, neppure un coniglio.

Volevo fare il lanciatore di coltelli. Ci provavo col temperino, con un vecchio coltellaccio lasciato in cantina da mio nonno, arrugginito e sbecchettato, con qualche piccolo coltello di cucina perché mia mamma non mi lasciava prenderne uno grande, e in più sempre li contava.
In un modo o nell’altro, non ci riuscivo mai a colpire di punta la porta della cantina o una finestra, sia che lo facessi roteare nell’aria, sia che provassi un dritto per dritto, davanti d’improvviso, o girandomi di colpo o da sotto il braccio, da sotto la gamba: sciocche stranezze, tanto era solo una ginnastica senza risultato.
È stato giocando con gli amici, voglio dire a nove anni, quando uno portò dei mazzi di carte incompleti, scartati dall’osteria, o con carte piegate e scorticate, troppo riconoscibili, è stato allora che ho scoperto le mie qualità ad imbrogliare.
Non è tanto rubare al gioco che mi piaceva quanto far sparire qualcosa o far credere di indovinare ciò che in realtà io già sapevo e loro no.
Avendo imparato a leggere prima ancora di andare a scuola, ho trovato nel tempo i libri adatti e i sentieri giusti.
Un maestro soprattutto; sono scappato da casa con lui, e quasi non mi hanno cercato. Era scritto negli occhi di tutti che me ne sarei andato, che non potevo reggere in quella casa, né gli altri si opponevano alla mia differenza.

Un tentativo fu fatto per spingermi a tornare; mandarono mio nonno, la persona meno adatta, perché lui sempre mi proteggeva. Parlammo un po’, mi diede notizie, non me ne chiese, se le sarebbe inventate lui, per riferirle. Ci saremmo rivisti di tanto in tanto, qua o là, se non fosse che lui morì quasi d’improvviso poco dopo. E lo seppi per caso dopo due anni.
Facevo il prestigiatore, ora. Ma di nascosto lanciavo i coltelli, quelli veri, quelli da esibizione, da circo, da sala pubblica. Il vero lanciatore, professionista reale, mi aveva capito e mi lasciava giocare coi suoi strumenti, saltuariamente, dopo gli spettacoli, quando capitava di incontrarci nella stessa città, o quando i nostri percorsi si incrociavano o si affiancavano.
Gli facevo piacere, io a lui, quando potevo esercitarmi, sfogarmi, eccitarmi, perché ero nato per quello e lui si commuoveva: ero io il migliore, forse l’assoluto. E in più, e non cosa da poco, era importante fare quello per cui si è nati, anche se a qualcuno può non apparire il massimo come progetto per la vita.

Il tiro improvviso da sotto il braccio, girandomi da dietro verso avanti, era impressionante; ma io la testa la giravo impercettibilmente prima: ero bravo per natura, e anche imbroglione, o astuto, per acquisizione, in crescita naturale sempre.
Di professione restavo prestidigitatore: carte, fazzoletti e mille nodi, corde animate, anche coniglio nel cappello benché un poco ridicolo e convenzionale, ma ci stava, era necessario.
Forse è stato proprio per il coniglio che non potevo continuare così; bisognava dargli da mangiare; sporcava qua e là senza orari; non mi piaceva: se non perché i conigli bianchi hanno gli occhi rossi. Quando lo dicevo, non importava proprio niente a nessuno degli occhi del coniglio.

Quando decisi di cambiare, lo feci in modo clamoroso: alla fine di uno spettacolo, con un coltello dei miei, di cui mi ero già fornito gradatamente, spaccai in due la testa dell’ultimo coniglio. Solo qualche gridolino acuto in sala; tutti avevano creduto che fosse una finzione. Ma qual è il nostro vero mondo. Così inesistente il confine fra i sogni.
Il litigio col mio proprietario, detto impresario, fu tremendo; gli rimborsai il coniglio, ma in ogni caso se l’erano mangiato; rinunciai a farmi pagare gli ultimi quattro spettacoli; e me ne andai, mentre alcuni mi bestemmiavano dietro e pochi altri, di nascosto, mi facevano segni di approvazione e anche di compiacimento. Nel nostro lavoro c’è sempre questo conflitto, fra la voglia di andarsene e il bisogno di restare, solo in parte scambiati fra di loro dal ritmo delle migrazioni.

Non trovai dove lavorare subito, e quasi non lo cercavo: un conto era il piacere delle imprese solitarie, con bersagli di grado estremo, un conto dover pensare a tirar coltelli per obbligo. Questo capivano subito in me gli impresari e mi lasciavano perdere, forse spaventati più che perplessi. Per un qualche tempo potevo ancora tirare avanti.
Il problema è anche che mi chiedevano se avessi una donna su cui sparare, qualcuno così diceva, insomma: lanciare.
Non l’avevo, né si poteva ereditare una partner da qualcuno che per mille diverse ragioni – ma una ne bastava – avesse deciso di abbandonare i lanci. Dopo anni di rischi in comune, calcolati sì, ma le sorprese “del coniglio”, del mio coniglio, esistono, non ci si lascia mai con disinvoltura. Questo, nella professione. Nella vita, non saprei: le storie da raccontare sarebbero centinaia ma non me ne vengono in mente facilmente: a comando, neppure queste, oltre ai lanci.

Capii che una volta o l’altra avrei dovuto trovarmi una collaboratrice, che doveva essere anche avvenente, non una inserviente nel nostro mondo o una bastonata qualsiasi; pensai anche a un collaboratore, invece tutti la volevano femmina, magra, alta, bionda ma si poteva tingere, dalla camminata elegante senza essere enfatica, capace di muovere preoccupazione e sorriso a distanza, soprattutto senza fingere male, credendoci davvero di aver paura: con le complicazioni della vita, si dice e si sa, tutto poteva sempre succedere. Riflettevo io stesso molto di frequente sulla innocenza del mio coniglio, molto meno pensavo agli impulsi anomali della mia azione, veramente eccessivi, visti dal dopo dei fatti.
La trovai. Una che da sempre voleva andarsene da casa per fare la prestigiatrice. Era nata per quello. Le andava bene farmi da bersaglio, poiché intanto le insegnavo quel lavoro dei suoi desideri, una professione. In cambio doveva fingere di aver paura e di salvarsi ogni sera dalla mia malvagità.

A lungo andare era entrata in me, la malvagità, forse solo un’immagine. O qualcosa di molto simile, la cattiveria gratuita, accompagnata all’insensatezza di tirare coltelli a sfiorare, altra finzione, la pelle della mia compagna. …Perché, poi, sì, lì si finisce: diventa una compagna anche negli spazi stretti della nostra vita, nei silenzi, nelle attese, nelle delusioni, nelle false consolazioni.
Per fortuna imparava in fretta e avrebbe anche potuto lasciarmi per la sua indipendenza artistica; però in quegli anni c’era mancanza di scritture, per così dire, mancanza di pubblico; era meglio cercasse in qualche percorso televisivo e non per le strade dei circhi.
La difficoltà della giornata influenzava i nostri rapporti; e li troncò. Chiese ospitalità in un altro carrozzone; la trovò dalla contorsionista, che per il momento stava sola; ogni tanto poi, lei passava la notte proprio dall’ex della sua ospitante. Questa però non si fece mai vedere da me, come se fosse per una teorica fantasia, una possibile compensazione, come dire: cose da contorsionista. Ma io avevo troppo la fama di perverso portatore di angosce e di veri rischi.
Ormai ci credevo anch’io, e me ne facevo un ruolo. Avevo cominciato a vestirmi di nero, a darmi una figura allampanata, mangiando sempre meno. Mi piaceva il mito di Paganini, e le sue varie leggende. Cercai di riuscire bene nelle imitazioni – mie private – come nei giochi di prestigio; in più, camminando solitario nell’oscurità, mi immaginavo di lanciare fulmini, insomma coltelli, quando qua quando là, su edifici o persone. Un poco di paura mi prese che forse non sarei di lì in poi capace sempre di controllarmi: mi sembrò una grande sciocchezza, e non ci pensai più.

Però dopo gli spettacoli mi piantavo spesso in mezzo a un vicolo, a un angolo di giardino o piazza, fissavo le cose, alteravo il tempo, la durata; ero indifferente allo spazio.
Il volo del coltello, ogni volta, durava un’eternità, vedevo le scalfitture della lama mentre viaggiava, ci stavo sopra, si arrivava insieme sul bersaglio più piccolo, parlo ancora di millimetri. La lama baciava la minima peluria di una guancia, pinzava la stoffa rigonfia di un respiro bloccato sul seno del bersaglio immoto, un brivido fra gli inguini. Tutto sembrava avvenire per fortuna, con paura, per sfida e passione, mai rimpianti.
Qualcuno, per gelosia suppongo, poiché a volte lanciavo in teatri grandi di provincia, per qualche vendetta che non saprei riconoscere, fece circolare la storia del mio coniglio. Una sera infine ne liberò uno in sala; un inserviente lo afferrò per le orecchie e lo buttò, immagino, per strada. La sera successiva un altro fu spinto dalle quinte verso di me.
Fui pronto a giocare d’ironia e gli lanciai con furia evidente un coltello per mancarlo abbondantemente, e subito dopo, di spalle!, un lampo sul mio bersaglio immobile, tagliandole un ricciolo finto che avevamo predisposto come novità della serata.
Un applauso così non si era mai sentito. Però da allora ho cominciato ad aver paura vera.
La mia collaboratrice mi fece domande, non le piacquero le risposte, e decidemmo di separarci appena trovata una sostituta, anche perché nel frattempo lei aveva ottenuto uno spazio tutto suo come prestidigitatrice: lo meritava. Mi lasciava con amara gratitudine, perché così vanno le cose, sempre.

È il “sempre” che cominciava ad attraversarmi; ne conoscevo i limiti e aumentava la paura. Questa si muoveva come una nuvola lenta, poco più di una nebbia; aspettavo un vento che mi liberasse, che non arrivò.
Si rivelò invece il malvagio che liberava conigli sulla scena. Uno stupido che non riusciva i suoi numeri di prestigiatore, pare, e gli animali gli scappavano via. Da lui veniva la mia nuova collaboratrice, a inizio carriera, e che non sapeva fare nulla, non aveva neanche un progetto o uno straccio di sogno.
Si accoccolava in un angolo del nostro carrozzone, e non ci siamo quasi mai parlati. Pare che avesse dei segreti, come tutti, ma per ora erano legati al silenzio.
Poiché era molto bella, oltre la media non bassa del nostro ambiente, tutti mi facevano qualche sciocca battuta sui nostri rapporti. La mia terrea reazione, pallida e contratta, li disperse rapidamente. E lei, una volta che parlò, mi disse di essermene grata. Fu per ricompensa che inaspettata si infilò sotto le mie coperte. E fu per una volta.
Intanto. Intanto la mia paura, una insicurezza che faceva radici, si concretizzava in crampi notturni; in tanti ne hanno, ma con me si accompagnavano ad un sogno ritornante sul percorso del coltello: non riuscivo a governarlo, fin quando si dirigeva infine verso di me. La cosa non mi dispiaceva, e mi sembrerebbe piuttosto un luogo comune narrativo, già spesso sentito: questo rischio lo dimenticavo ma restavano i crampi, che temevo si diramassero alle braccia, o alla nuca, alle spalle.
Con un recupero, pur transitorio, di serenità capii che potevo fidarmi dell’abitudine pluriennale, nel senso che tutto in me era adeguato ai movimenti, c’era una memoria resistente; non era la mia volontà, o i desideri, o i sentimenti, a guidare il volo del coltello.
Il bersaglio chiamava, si allargava e guidava facilmente al proprio intimo, che era il segno predeterminato, il margine segnato nel sogno del punto centrale del mondo. Lì sono andato per tutta la vita.
Sto ancora andando verso quella voce, che non ha spazio, ha solo il tempo del lancio e del volo: il resto è inutile.

Temo. Non la cecità, dunque. Se cambia la voce e il percorso, temo. Se perdo il mio sogno infantile: segnava che voglio fare il lanciatore di coltelli, e io mi sono fidato.
È di me che ora sempre meno mi sto fidando, ancora non so fino a quando e se devo.
Soprattutto non so, non riesco a sapere, quando mi sbaglierò. Il volo è bello, però forse resto indietro, non lo seguo, e lui va.
E non lo saprò neppure. 
No. Lo saprò dal grido della folla, che dopo una piccola esitazione, una brevissima impercettibile pausa, passa dalla soddisfazione per la bella serata al raccapriccio da raccontare, e lo saprò da come mi salteranno addosso, e a terra mi calpesteranno. Con occhi rossi come conigli bianchi.

Commenti

Post più popolari