PARLARE STRANIERO

 di Bruno Pompili



Dorothée Beauséjour, Parole (2023)


Quelle parole che mi hai detto

ora le hai dimenticate

(ipotetica canzone d’affetti)



Perché allarmarsi: lo sappiamo da tempo che c’è un’invasione di parole da altre lingue. Visto che è stato evocato un allarme, possiamo parlarne.

Già si sono riuniti gli esperti, i diplomatici, i generali, i soldati, i fiscalisti, i tattici, i governanti, gli operai, i passanti, gli intervistati e gli intervistatori, le vedove di guerra, gli scolari secchioni e quelli scioperati, gli amici e i nemici di qualcosa: insomma i giornalisti hanno di nuovo un nuovo tema per riempire gli spazi cartacei, elettronici, tvini, radioini.

E tutto questo è bene, perché possiamo ragionare su una cosa importante senza essere in campagna elettorale, in crisi di qualcosa (non perdoniamo la guerra), ma avendo davanti a noi una situazione che in ogni caso va capita, affrontata e (improbabilmente) risolta su tempi estremamente lunghi: non sopporta ricette o impacchi d’acqua calda, foss’anche sorgiva.

Io ci metto alcune piccole storie o considerazioni, che stanno nell’esperienza di ognuno, con riflessi variegati, ma molto somiglianti. Eviterò gli esempi che sono il più delle volte approssimativi, di parte, e anche un poco tristi.


1. Da bambino son vissuto in campagna, fra lingua italiana e dialetto; con me parlavano in italiano, e fra di loro, parenti e conoscenti, in dialetto; in quella scuola, due stanze per classi multiple, circolava un italiano inframezzato di dialettismi: parole ruspanti tradotte in bella copia. Inesistenti nel lessico del dizionario. Eravamo felici, probabilmente.


2. Quando abbiamo scoperto, con qualche sofferenza iniziale, la lingua latina, le felicità sono mutate ma non scomparse. Si sono insinuate delle organizzazioni espressive che allargavano le cose da dire. Citazioni, più o meno esatte, parole tirate là per impressionare o per capirci come in un linguaggio di clan. E le parole dell’italiano che prendevano un peso, una lucidata, un modo di affermare. Eravamo felici, probabilmente.


3. È successo alla maggior parte di noi di scoprire (o farci scoprire da) una lingua straniera; molto più tardi sono diventate due. Orizzonte di viaggi più facili. Occhieggiamenti e corrispondenze lontane in una nuova possibilità di raddoppiare l’italiano: nella maggior parte dei casi l’operazione globale è fallita, ma eravamo felici, probabilmente.


4. Lentamente ci è apparso che poteva esserci un conflitto: la nostra lingua e quella degli altri. Alcuni parlavano un qualcosa che ci sfuggiva, perché loro usavano parole diverse dalla nostra memoria; ma con un poco di pazienza e qualche dizionario (tecnico soprattutto, ma non sempre c’era, e non sempre era adeguato preciso illuminante, utile insomma), con un poco di pazienza e disponibilità, ma anche con qualche fatica, abbiamo compensato delle differenze, imparato nuovi orizzonti: un poco meno felici, in apparenza almeno, a causa di qualche nebbiolina ambientale. Era cambiato qualcosa di più, che ancora non era chiaro.


5. Sono arrivate in abbondanza le parole nuove. All’inizio, agli inizi, c’era del tempo, una qualche durata lungo la quale si disponevano le novità, che si ambientavano e sembravano di casa. Ora il tempo ha preso accelerazioni inattese, no, il tempo è lo stesso, sono gli arrivi che sono più rapidi, hanno un veicolo di trasmissione che arriva da più parti e non hai difese.


6. Se non hai difese, devi rinunciare a difenderti, devi cercare di capire di più e meglio quel che sta avvenendo. Inutile cercare di tarpare, annullare, inveire, punire, escludere, e forse un giorno uccidere. Non abbiamo margini di felicità.


7. Abbiamo dimenticato le belle parole che mi dicevi. Si è sfascicolato il dizionario che le conteneva tutte, belle in ordine e chiare di intenzioni.

È successo qualcosa, alla nostra scuola di campagna che è entrata in un edificio moderno di città, così bello, così grande, antisismico forse, ma non sappiamo i corridoi né le porte.

Ci facciamo piccoli e ci ritiriamo, i fascicoli del nostro nuovo dizionario sono così tanto più sottili; non sappiamo leggere, poi non capiamo quel che leggiamo; parliamo con i segni, che sembrano quasi meglio; ci sono le parole degli altri che sembrano meglio, lucide, utili per molte cose ma non ci rappresentano più; avevamo delle cose da dire, ora abbiamo delle parole da usare.

La nostra felicità traballa qua e là, in certe ore in certi luoghi e nei rapporti con certe persone. Quelli e quelle ci stavano a cuore.


8. Siccome siamo cresciuti bene, siamo disponibili a cominciare di nuovo, con qualche fatica, oh sì, ma si può fare. Però dobbiamo mettere dei paletti: sapere esattamente cosa succede di noi nei momenti codificati della nostra vita, per non essere ingannati da ciò che non capiamo bene.

Il problema della felicità è una cosa seria.

Ci sono dei volenterosi, dei comici un poco, che raccontano diverse occorrenze di inganni e di curiosi “qui pro quo” (si può dire qui pro quo, senza virgolette?) nell’intreccio delle parole. Bene, ma poi bisogna anche essere seri, in proporzione, diciamo.

E gli operatori ufficiali, quelli che senza volere insegnano, debbono sapere bene il nuovo dizionario, sia orale che scritto. O fanno parte di un inganno.


9. Io non ho paura delle parole, perché non mi vinceranno; le addomesticherò. (Affermazione audace di un vecchio saggio seduto davanti al mare con un tramonto, per l’occasione non rosso.)

Lui ha ancora la felicità di esprimersi in un italiano ricco, un poco emarginato, ma con tanta memoria così ampia da essere l’orizzonte.


10. Io, che ho raccolto queste brevi storie, come quel vecchio saggio, non ho paura delle parole diverse, ho paura che si assottiglino, che siano sempre di meno in realtà, che non ci diano alternative nel nostro dire, e poi, la paura più grande è che la loro esiguità ci stia mangiando la sintassi.

Se perdo la sintassi, ho veramente paura di non poter articolare il mio riflettere, i miei giorni e l’antica felicità del dire.


xx. Avevamo delle cose da dire, ora abbiamo delle parole da usare. (Dal Manuale dell’infelicità, di Ignoto).

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