IL LEBBROSARIO DI MALVASIA

di Bruno Pompili



Il poco spiegabile è sempre alla pari
col necessario.

Pier Pacchioni, Lettera privata.



Leopoldo Gallegra, Barca arenata


1

Sapevo del vino di questi luoghi, perché l’avevo visto su scaffali riservati di buoni negozi. Non sapevo niente della lebbra perché nessuno me ne aveva mai parlato, eccetto il vangelo con le sue guarigioni miracolose.

Dalla lingua di terra e sabbia, come un ponte sul mare, che porta alla roccaforte di Malvasia, e prima ancora al paese fortificato, passando, lo vedi subito sulla sinistra, verso dove sale il sole, d’estate: è un riquadro dentro veri muri di cinta, non alti, ma così banalmente continui.

Da quella direzione e da un poco più verso nord vengono i venti periodici, a volte anche di tempesta, ma raramente tanto violenti e perfidi quanto i più rari turbini da sud o sudovest. Anche qui dicono un qualcosa che suona come “la tramontana è onesta”.

Comunque arrivino, i venti non possono portare infezioni, pestilenze e odori verso il paese ma solo verso mare, o di qua o di là della striscia di sabbia.

Lo spazio recintato ha l’aria di un cimitero, e lo è stato. Lo sembra ancora, dopo essere stato o sembrato un ospedale, una prigione, un campo di internati; si nega con poca convinzione, qui tutt’intorno, che sia mai stato davvero un lebbrosario.

Stradine, sentieri, spiazzi, vicoli, scalinate, pertugi, grotte, loculi, fessure nelle pareti di edifici di tre piani in parte caduti o senza soffitti, svuotati dentro, finestrine e sbrecciature dei muri più grossi, pietre rotonde lanciate da bombarde, sparse, o raccolte ora in piccole piramidi, proietti di spingarde, schegge di pietre e di metalli bruciati, strisce di terra dove non cresce l’erba, altrove cespugli fitti e quasi rigogliosi, ghiaia ammucchiata o roccia scoperta, paletti infraciditi dall’umidità e poi sfatti dal sole. È facile credere qui alle naturali autocombustioni: basta una pietra che cada su di una pietra e la scintilla fa serpeggiare una lucciola di fuoco, e l’incendio largo avanza con tutte le erbe e nei cespugli già grigi per fiamme passate. Muri striati di nero, crivellati di scheggiature e fori, dicono di grida, scoppi e frantumazioni.

Era stato dunque anche una piazzaforte di difesa. Bovini e pecore a un magro pascolo non fanno pensare a stalle, questo no, perché ho visto che verso sera vengono condotti fuori in ripari più organizzati, tettoie di lamiera e balle ammucchiate di fieno; o ci vanno da soli.

In ogni caso, per tutto lo spazio, c’è una difficoltà a camminare, si scivola su ogni pietra dei selciati.

Nella parte più alta del declivio, prima che cominci la proiezione della roccia verso il cielo, c’è il punto di ristoro. Qui è chiamato «Cantina». Una ragazzina è pronta a raccontare la storia di tutto, basta darle la sensazione che è importante, lei, e il suo dire.

Tommaso lo sciancato ne sa di più di lei, però non lo sa dire così bene; ha tuttavia il vantaggio che suo padre e suo fratello sono morti lì. Così appare più credibile; e questo sembra essere un carattere fondamentale in un racconto.

La ragazza, Viviana, si muove bene scalza e tiene delle scarpette leggere di panno e di cuoio legate sotto una sedia; le mette quando va a casa, camminando sempre con precauzione. Tommaso ha applicato sotto le proprie scarpe chiodate una risuolatura di gomma di bicicletta, ben incollata e forse fissata da un ciabattino esperto. A sorpresa, si muove con disinvoltura; ma non sa parlare bene.

Fuori dalle mura di recinzione o di difesa, si vede un tappeto di ritmici vigneti a cespuglio, ma in angoli isolati ci sono viti sdraiate sulla sabbia per non patire il vento. È da quelle che si ricava una quantità ridotta di passito rosso scuro; non riuscivo a capire perché lo chiamassero, con tanto di etichetta (in parte macabra in parte trionfante), l’Ambrosia del Lebbroso. Poi me ne ha fatto capire il successo, Viviana, usando le parole prevenzione e ottimismo.

L’immagine macabra di una mano scarnita e di un volto semi-corroso sull’etichetta viene presa in ridere; in filigrana si intravvede il viso di un Cristo miracolante, e delle tenui bollicine etiliche che salgono in ordinata schiera nell’azzurro chiaro. Dell’etichetta.


2

Dalle cronache dei giornali e dalle confidenze semi-false o pseudo-vere strappate alla polizia, Tommaso sembra una vittima innocente.

Viviana si è solo spaventata; scalza, è riuscita a correre veloce e a dileguarsi; è riapparsa quando sicuramente non c’era più pericolo e quando ha visto che la cercavano, angosciati, conoscenti e un paio di poliziotti. Qualche taglio sulla pianta dei piedi diventerà un ricordo e un più autentico racconto.

Tommaso, sospettato in un tempo recente di molestie assidue verso la ragazzina, adesso se l’era vista brutta e ne porta i segni: coltello e bastone. Salvo per caso, o per le grida di Viviana in fuga sulla cresta di un muro, non ha saputo dire – non dico: spiegare – nulla; gli aggressori sono sembrati, quanto a lungo non saprei ancora dire, figure irreali, fra passanti e travestiti, soldati imprecisati o come una squadra di pulizia delle scene del crimine, fra eleganti remoti e moderni démodés: antiquati insomma o sbrindellati. I volti erano per certo inquietanti, a giudicare da mezze parole di Tommaso, che se prima non sapeva raccontare ora sembra non sappia neppure parlare.

Le cose per lui sono rapidamente peggiorate perché un paio di ferite, a una scapola e all’addome, si sono subito infettate. Il trattamento antibiotico non sembra dare risultati adeguati, non dico soddisfacenti.

La curiosità di Marianna Stroppiacazzi, un Comandante della Sicurezza (scusate: traduco il suo vero cognome, d’ora in poi userò gli asterischi), la metodicità nelle azioni previste dal suo ruolo, hanno portato alla raccolta di frammenti di abiti o comunque di stoffe. E altro.

Tommaso è stato il meno sorpreso di tutti quando le analisi merceologiche, chimiche e biomediche dei tessuti hanno portato a classificare: frammenti di divise di epoca nazista o di collaborazionisti, abiti abbandonati interi da turisti piuttosto poveri, oggetti personali di guardie carcerarie di un remoto regime, cenci sfilacciati di lebbrosi, mantelli datatissimi di questuanti, giacchette lise e unte di barboni. Una radiolina senza batterie, trovate un poco discoste e comunque esaurite. Bustine di preservativi di una marca ormai scomparsa da tempo. Un foulard di seta raffinata, dai colori tenui o bruciati da sole, pioggia, vento, portato da chissà dove, o da vortici. Mocassini di pelle rivoltata, che forse saranno di nuovo di moda fra qualche anno. La carcassa bianca di un coniglio totalmente ripulita da vermi e scarabei. Fibbie di cinture che hanno ceduto a intemperie e all’uso. Piccole taniche intatte, o piuttosto bottiglie in forme di tanica. Immagini non solo scolorite ma proprio consunte di santi plastificati, come accarezzati a lungo per preghiera e per invocare salvezze. Cespugli strappati, diversi da quelli che crescono qui, come di una flora di altro luogo e altro tempo, tropicali probabilmente. Lische di pesci mangiati prima dagli uomini e poi ripulite dalle formiche. Tozzi irriconoscibili di pane, pietrificato e grigioverde di muffe. In angoli di poca terra fra le pietre, lungo i sentieri, orme. Difficile a dirsi, ma, a fantasia, orme non umane: questo è stato detto, ma subito giudicato una grande sciocchezza da Marianna ***. Chissà se ci vorrà ripensare.

La busta degli escrementi conferma solo animali: gatti, conigli, volpi, faine, una lepre, ratti, nessun cane in assoluto, né rettili. Mucche, capre, pecore, in abbondanza uno se le aspetterebbe, sì, ma non là dove c’è stata l’aggressione; infatti stanno sempre a pascolare verso i muri di confine, preferendo l’ombra e l’umidità. I percorsi di indagine, come si sa, sono più utili pensando a ciò che manca e non per ciò che si trova.

Si avverte e forse si capisce che i collaboratori di Marianna *** la ammirano quanto la detestano: ghignetti dietro le spalle e smorfie, dita incrociate a ogni piè sospinto, distrazioni, sigarette accese e spente stando voltati sottovento, sguardi all’orizzonte; subito a orecchie dritte appena qualcosa appare loro convincente, spesso.

Era impensabile che ci fossero tante cose e così tanto varie; non per il peso o la quantità sia chiaro, ma per il fatto di trovarsi presenti. Il pensiero più banale è però che bastava osservarle, non c’era bisogno di raccoglierle. L’hanno detto, o borbottato, che Marianna vuole far vedere l’utilità del nuovo laboratorio, attrezzato per l’intera regione; e visto che è proprio qui vicino, va usato.

I curiosi e gli attenti trovano anche piccole monete forate di tante storie diverse; le intascano credendo in un reperimento sorprendente, prima di perderle o dimenticarle a loro volta.


3

Il racconto di Viviana è tutto da pesare, e Marianna *** avrà il suo bel da fare.

La quantità di strilli, la loro durata e l’intensità, farebbero pensare a un lungo episodio: arrivo, aggressione, fuga ansimante, fiato grosso e corto, chi fossero i nuovi venuti e come sfuggire loro, se erano un pericolo, se veramente c’era un pericolo e non un malinteso.

Tutta quella naturale agitazione, l’esaltazione della novità, l’aggressione, del tutto inattesa e mai pensata (forse mai pensata), hanno ridotto il racconto a poco o niente.

«Ho visto Tommaso che si dibatteva per terra, c’erano vestiti strani che si accanivano su di lui, io già scappavo e non riuscivo a strillare. Arrivata al muro di sopra, passando dove solo io so, ho potuto gridare; vedevo poco ma attorno all’ombra di Tommaso, se era lui quella macchia sdraiata, penso di sì, non c’era più nessuno: credo che m’inseguissero ed è allora che ho gridato di più, ma non c’era più nessuno. Ho guardato, o meglio frugato in lontananza con gli occhi, che ho molto buoni, dietro cespugli e rocce, pezzi di muro, baracche; poi vicino, più vicino a me, mi sembrava che mi prendessero per i piedi, per tirarmi non so dove, sotto o lontano, e invece non si è visto nessuno anche se mi sentivo le mani salire lungo le gambe e fino alle cosce, la pancia e lo stomaco e le grida che non mi uscivano più. D’improvviso un gran silenzio, perché non urlavo più io. Non c’era nessuno, poi siete arrivati voi, dopo quanto non saprei proprio, mi è sembrata un’ora.»

«In sedici minuti siamo stati qui. Non abbiamo visto nessuno. Sei proprio sicura di tutto questo.»

«Ho un ricordo. Tommaso cosa dice.»

«Vedremo, vedremo. Possiamo accompagnarti a casa. Da adesso a domani, qui resta tutto chiuso. Via anche le bestie e gli animali. Tu non ce l’hai un cane?»

«Due ce ne sono, ma vengono quando vogliono; non è qui che mangiano… Grazie che siete venuti.»

«Sì, d’accordo. Ma questo racconto ce lo dovrai fare di nuovo. Vedi di saltare il superfluo di quel che hai già detto, vedi di ricordare altre cose, anche dei giorni passati. E dimmi una cosa: vai d’accordo con Tommaso?»

«Certo che vado d’accordo, ma faccio sempre in modo che non esageri. Non ci sono problemi. Io sto attenta. Lui sta al posto suo. E comunque parliamo molto poco. Più che altro parla da solo. I suoi problemi, i suoi parenti, i lutti passati e vicini. Io però non riesco a capire bene le sue parole: sembra a volte che parli straniero, che si faccia capire meglio da stranieri.»

«Ci sono state delle visite particolari, che ti hanno fatto una qualche impressione.»

«In realtà non viene quasi nessuno, eccetto qualche internato di una volta che vuole rivedere i posti, e in segreto qualche lebbroso, guarito. Qualche soldato, che qui ha perso qualcuno, o si è un po’ perso lui nella sua testa. Arriva a volte anche un qualche prigioniero, poi liberato in fretta, voglio dire liberato allora.

Una notte, non so più perché, ho dormito qui. Troppe grida. Ho avuto paura. E da allora quando tramonta me ne vado. Debbo dire che quasi tutti comprano, soprattutto la malvasia, e in particolare il passito. Hanno ragione.»

«Andiamo a casa, Viviana. Non cercare Tommaso, l’abbiamo noi in ospedale. Intanto dimmi dove sta lui di solito, quand’è qui.»

«Dietro quella baracca squartata; ci sono delle tombe nascoste; le vedi solo se già lo sai.»

«Un’ultima cosa: c’è gente che fa scherzi, che lo fa apposta a farti paura, a spaventarti? Te o Tommaso. Hai mai visto se Tommaso aveva delle paure.»

«Di sera andava via prima di me, a causa della gamba zoppa; di sera sì, si ritirava con lentezza, ci metteva tempo, e si guardava attorno, anche indietro; poi mi salutava da lontano, come se si voltasse per me.

Io lo capivo. Tutto bene. Fino ad oggi.»

«Sistemeremo tutto. Stai tranquilla. Poi torno di nuovo io, e parleremo.»

«Io non so se ci vorrò restare. Se non torna Tommaso dovrei essere sola; non c’è una vera ragione per stare qui. Ho paura che le voci della notte passino nel giorno, se sono sola.»

«A casa tua con chi stai.»

«Mia zia. La sorella del babbo. Gli altri non ci sono più. Una volta stavano qui al museo: loro così lo chiamavano. Lo sapete che era una prigione, poi un accampamento, o anche un ospedale per malattie che non ci sono più.»

«Domani resta a casa. Se ci serve qualcosa ti mando a prendere con la macchina. Non andare con nessuno, solo con noi.»


4

«Sto dormendo con la finestra aperta in questi mesi d’estate. Sto tranquilla perché abito al terzo piano e non c’è possibile scalata al balcone; nella stanza più vicina all’entrata dorme mia zia, lei però spesso non c’è, e non ho mai chiesto dove vada; né ha mostrato di volerlo confidare, né ha l’età per avere un legame. Non viene in mente di chiedere o dire, non tocca a me che sono quasi molto piccola. Per l’abitazione finora non mi sono mai posta problemi; non ho mai avuto paura a casa mia, una volta chiusa la porta.

Sto seduta spesso sul balcone da dove vedo il mio posto di lavoro, la striscia di sabbia, il declivio, le mura di recinzione, la roccia che s’impenna, la roccaforte in cima costruita dai veneziani, il paese che si intravvede appena, perché sta dietro il giro della montagna: si vede solo uno spicchio della porta merlata, adattata tardi, centocinquant’anni fa. Una porta senza leoni né grifi. Ma pietra dura alternata a vecchio cotto di tipo romano, muro largo, imbottito di sassi alla rinfusa e calce, grate alte arrugginite e bloccate che non calano a chiudere il passaggio, ma possono cadere, e una volta o l’altra scendono oblique e si bloccano fino a che le butteranno, non potranno che buttarle. Anche le tre porticine che si aprono dalle mura a mare, tutto lungo la costa, sono disarmate. Quando soffia da ovest-sudovest, si raccoglie una schiuma grassosa che rende orribile il bagno. Invece lungo la mia striscia di sabbia, o a est o a ponente puoi scegliere il mare pulito.

Non mi stanco mai di guardare di notte le luci che passano al largo, le lanterne sulla terraferma, e qui l’illuminazione vacillante del borgo.

Le luci che stanno nel mio parco archeologico (qualcuno lo chiama ancora così; solo una volta ho sentito la parola lebbrosario) non me le sono mai spiegate, perché di giorno non ci sono segni o residui di niente, come se dopo la chiusura del cancello, senza lucchetto per altro, si aprisse una vera parentesi di buio e di silenzio. Nessun segno resta, né carta, né plastica, né vetro, né possibili avanzi organici, né tovagliolini di carta o altro.

Non so capire perché quell’unica volta che ho dormito là abbia avuto tanta paura: o colpa mia o per uno scherzo; posso anche sospettare a causa di quel che non so ancora della storia del mio recinto, pur avendo studiato molto.

Adesso è tutto da rivedere, ricalcolare, o raccontare in altro modo, dopo l’aggressione a Tommaso.

Aspetto e si vedrà. Dovrei però tener conto di quei fuochi che sembrano incendi, perché poi non c’è quasi cenere, o il vento l’ha presa.

Le grida mi avevano fatto paura, non i fuochi. Dovrò dirlo forse, se mi sembrerà che abbia senso. Dovrò convincermi da sola, e non perché me lo dicono gli altri. Tommaso non ha mai detto niente di quella notte: sono anche scappata nel buio, senza voltarmi per non vedere. A lui ho detto soltanto mezze parole, e non ha reagito. Non c’era, è vero. Non ha mai sentito qualcosa di simile, o non me l’ha voluto dire. Adesso che per poco non l’ammazzano forse verrà fuori qualcosa. Si ricorderà di dirlo.

Ora proprio c’è una luce, o un fuoco, una lanterna forte, un vacillìo, o il vento, che qui non arriva perché il mio balcone è al coperto, è sempre sottovento o in un modo o in un altro.

Il fuoco, perché adesso sembra un fuoco, si muove verso la mia Cantina mobile. Non mi tocca di dover avvertire, non devo fare niente.

Né saprei.

Non è forse che non so veramente niente; e chissà cosa mi devo aspettare. Sempre così, suppongo, è la vita di tutti.»


5

Dei cenci si trovano, è l’unica cosa che si trova. A brandelli, una veste e una specie di mantello. Viviana non li riconoscerebbe; le sono mancate le illustrazioni delle tragedie in lebbrosario. I disegnatori hanno sempre insistito sugli abiti in disfacimento a somiglianza della carne. O dei sogni.

All’occhio di Marianna ***, no, non sono sfuggiti. Siccome ha i suoi contatti, in breve, questione di un quarto d’ora, poco più, una squadra con mascherine e tute bianche di taglia abbondante è sul posto. Attorno ai cassonetti vicino a casa di Viviana, poi all’ingresso del campo archeologico, appiccicati per tutta l’altezza a tratti di rete metallica, al portone, già chiuso con sigilli dalla sera prima, e lungo la lingua di sabbia, i cenci sono stati raccolti in abbondanza.

I servizi per il cittadino, per l’insistenza del Comandante Marianna sembrano funzionare; il mistero, che non c’era, viene chiarito subito. Un trasportatore con un camion infatti ha perso una grande balla squadrata di stracci destinati a una cartiera; i legacci si sono spezzati e il vento della notte, che intorno alle quattro ha soffiato con forza, ha disperso e ammucchiato qua e là i cenci.

Non ci sono lebbrosi, non ci sono vendette misteriose, ricordi straziati di un montecristo senza abate faria, soldati, prigionieri, internati di molte barbarie. Niente nostalgie di sopraffazioni, che si vogliano ripetere; aguzzini rinvigoriti dai tempi attuali; collaboratori giustificati da inganni storici.

Viviana, Marianna ***, turisti che chiedono uno straccio di storia da portare a casa insieme a un passito con immagini repellenti, Tommaso (Teodoro nelle carte ufficiali) che è veramente ferito e non dice da chi, un giornalista d’inchiesta che si fa una vacanza in un posto straordinario e si prepara anche un raccontino, un’operatrice turistica che vuol promuovere “stelle e forchette”, affittacamere dagli occhi tristi e di poche parole visto come vanno le cose da qualche anno, pescatori che battono polpi surgelati in acqua di mare per togliere la glassa e insaporirli, stranieri che si chiedono se valesse la pena fare un viaggio così: non ne sanno niente, nessuno di loro.


6

Qualche giorno dopo l’aggressione il sindaco ha trovato ragioni sufficienti – negli archivi del Comune, dice – e le sostiene con vigore: ha fatto preparare una grande insegna di metallo con incisioni, perché si sappia che chi entra da quel cancello può rivivere la perdita di ogni speranza, indietro non si torna.

I sentieri interni saranno battezzati, edifici puntellati, baracche disinfestate, animali allontanati a brucare altrove, la Cantina affiancata da una seconda baracca mobile, orari estivi e invernali fissati e scolpiti, la promozione turistica nelle esposizioni internazionali potenziata anzi inaugurata finalmente.

Si sappia che questo è il Lebbrosario di Malvasia, che ha ospitato pestilenze e sofferenze senza nome. E che non è casuale la nuova denominazione Lazzaretto per il bed and breakfast che da anni si trova alla fine del ponte di sabbia, al bivio per il paese.

Dopo una prima perplessità tutti hanno convenuto che la novità può fare del bene, al paese e alla memoria.

Una lapide dirà che in circostanze misteriose è stato ferito Tommaso, il primo custode dell’allora campo archeologico, poi deceduto, dopo ben quattro giorni di irreversibili infezioni.

Viviana è andata a vivere da una zia materna, in una città dove potrà continuare gli studi. Marianna Stroppiacazzi è stata trasferita, su sua richiesta subito accolta, in una regione molto importante, col grado di maggiore, dopo aver completato con successo le pratiche per il cambiamento di cognome.

Le ho ascoltate – e le riferisco – tutte queste confidenze alla rinomata Taverna del Lebbroso, Tre Forchette, dove sono entrato in sintonia con il farmacista, il parroco, col maggior produttore del passito, che compra il mosto a cinquanta chilometri da qui, e la zia di Viviana. Tutti mi hanno assicurato che Tommaso era stato stupido e dunque sfortunato; aveva simulato un’aggressione, a scopo pensione, ma si era ferito malamente e senza precauzioni con un coltello conservato per decenni in una baracca del lebbrosario.

Aggiungo che ho visto coi miei occhi un ricco panfilo (verdad panama) ancorato vicino alla lingua di sabbia, con una ventina di ospiti che festeggiavano con bottiglie di passito – in silenzio per noi, a causa della lontananza. Alcuni altri, scesi a terra, cenavano nella mia trattoria. Mi hanno impressionato il pallore delle donne e le occhiaie livide degli uomini. Si cibavano con tristezza. A volte un mezzo sorriso, con la risposta di un ghigno.

Noi clienti abituali stavamo tutti in silenzio, come impressionati dalla loro presenza; ci siamo guardati fissi diverse volte, e senza accordo ci siamo allontanati ognuno per casa propria. E senza salutarci meglio, o più a lungo del solito, per la ragione – come tutti sapevano – che il mattino dopo io sarei partito.

A quel punto già della notte il panfilo non c’era più.

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