Sindrome hk23G22

 di Bruno Pompili



Elena Vijoli, "Scream - morbo sacro/morbo diabolico"


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Non l’ho detto io, e non avrei voluto mai sentirlo dire da altri; meglio sarebbe stato per tutti, me compresa; ma era necessario che si sapesse. Dunque non abbiamo trovato via d’uscita, come dire che è un vero problema, cioè senza soluzione concreta né teorica.

Stavo già male quando sei venuto al villaggio. Ti avevo visto arrivare, da lontano; attraversare il nostro fiumiciattolo di poca acqua, e ho avuto un brivido pensando al freddo che ti bagnava i piedi, e su fino alle ginocchia.

Tremavo spesso, già allora; un tremito che mi scuoteva e diventava sempre più forte; battevo i denti come se avessi una gran febbre, facevo rumore, molto rumore, senza riuscire a trattenermi. Poi passava. Ma non era malaria, anche se ci assomigliava.

Questo veniva detto, e altro, intorno a me.


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Arrivando in paese mi chiesi perché non ci fosse più un ponte, o anche una semplice passerella per non dover mettere i piedi in acqua. Me lo dissero subito: avrei dovuto attraversare molto più in su, dove passano i carri, naturalmente; ma io non l’avevo visto quel ponte, o controllato abbastanza sulle carte.

Poiché arrivavo lì per caso, non avevo una vera ragione per ricordare, o aver studiato di nuovo il percorso. Volevo solo girare per la zona, senza programmi; avevo bisogno di distrarmi, di sostituire pensieri con altri, non potendo restare senza, come mi sarebbe piaciuto fare.

Il paese mi è convenuto subito, come se lo avessi frequentato molto tempo prima, dimenticato, e ci stessi ritornando a cercare ricordi. Il nome forse mi disorienta.

Era un tempo in cui ancora credevo che si possa trovare un buon posto dove stare, diverso dal solito, e in grado di cambiarti almeno l’umore, se non proprio la vita. A quest’ultima possibilità già avevo smesso di pensare, ma non al fatto di cambiare qualcosa, o di star meglio altrove.

Ti ho vista dietro i vetri di una casa, mi sembrò, ed era un ambulatorio: un’abitazione in realtà, che ospitava un laboratorio d’analisi.

Mi colpì la tua altezza, un altro errore dovuto ai dislivelli del piano stradale, e alle finestre tagliate basse: qui tutti sembrano più alti, visti da fuori.

Nessun inganno invece sui tuoi occhi, di pietra vulcanica, nera e striata di rosso bruciato, come non esistono in natura, per così dire. Mi chiesi da lontano come possa una persona avere in volto dei fari magnetici, come la invenzione assoluta di un mago: mi dicevo spesso sciocchezze del genere. Ma i tuoi occhi li conosci: aprono e chiudono la galleria pericolosa della tua persona; non voglio usare la parola “mente”.


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Abbiamo impiegato molto tempo prima di parlarci, fondamentalmente, da parte mia, per non dar fastidio a una sconosciuta.

In questo paese ci stavo venendo per errore, credendo di avere ancora qualche conoscente e un paio di vecchi amici, che intanto però erano morti. L’ho confuso con un altro, come avviene in sogno, o a causa del tempo remoto.

Sono qui senza sapere esattamente perché, ma almeno per uscire da una abitudine senza senso.

È stata una casualità totale trovarci, noi, alla cassa di un negozio e poi all’unico tavolo libero (ma su cinque in tutto, è quasi obbligato) di una trattoria, per cibo di base, di pulita qualità.

Da sola mi hai detto «sono Corinzia»; non mi hai chiesto il mio nome, e io non sono stato pronto a dirtelo; così, poi, non te l’ho detto. O non volevo dirlo. Non mi sono chiesto, e neppure a te, come mai tu già lo sapessi, o in che modo.

Da sola: «è stato un conoscente», come dire un superstite in questi paesi; mi aveva visto passare e borbottava fra sé e sé che non avrebbe mai pensato di rivedermi, e comunque era una cosa insignificante visto tanto tempo, tanta assenza e tanto silenzio.

Io non avevo avuto vere ragioni per tornare, e non ce ne sono mai: aveva ragione Eusebio, che sempre lo diceva; bravo pure a ricordarsi il mio nome; io ho ricordato il suo solo perché tu l’hai nominato.

Non c’era una vera ragione per parlarmi, e non l’ha fatto, “visto tanto tempo, tanta assenza e tanto silenzio”. Cosa mai poteva cambiare.

Il cerusico mi ha fermato, il barbiere. Mi ha guardato, cercando di ricordare; e ha detto sì, che sono io. Ricorda bene quando ce ne siamo andati: tutti avevamo dei problemi di circolazione.

Nella mia famiglia non ne abbiamo mai avuti, di evidenti.

Avevamo forse mentito in paese, cercando delle giustificazioni; o erano altri. Sembra contento di vedermi, il cerusico (è certo che noi lo chiamavamo così), e mi adeguo all’incontro, con un sorriso che deve sembrare non so cosa.


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Da sola dici molte cose, anticipando domande che forse non ti arriverebbero.

Mi ero convinto di dover riposare, deciso a non aver bisogno di pensare, per non chiedere, e poi pentirmi di aver chiesto.

In te, tanto bisogno dunque di parlare, dovuto alla malattia, e aprire libri non scritti per te, conversazioni provocate che schiaccino il silenzio: possono infastidire o far vivere.

Una malattia misteriosa, può essere meglio o peggio di una già codificata; certamente la si vive in modi diversi da quelle che condannano.

Lo dice uno che non lo sa.

Non puoi andare in farmacia, per esempio: è inutile. Non ti serve nulla di specifico, e gli altri farmaci funzionano solo come veleni aggiunti.


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La mia malattia non ha neanche un nome, non è una sindrome eponima, e questo mi sembra strano, o io non capisco la parola.

Ha una sigla che nessuno riferisce a qualcosa, hk23G22, e questo a volte è un bene. Non ti stanno addosso con una curiosità morbosa. Capiscono che è una cosa strana, o forse rara, o anche pericolosa e “speriamo non sia contagiosa”.

«Se la lasciano circolare, almeno non sarà infettiva.» Sarei io. Si capisce.

Discorso logico, accettabile.

O ti compatiscono, senza volerlo far capire, giustamente. O la sigla serve, credono, per delicatezza, per assicurare un poco di riservatezza: tutti hanno imparato la parola privacy del dolore, o della solitudine.

Il mio problema è invece un altro. Da questa sigla sono colpite più o meno “zero virgola tre” persone su centomila, mi pare. Sono numeri e proporzioni che quasi non si afferrano.

La realtà è che nessuno studia per guarirti, e non ti puoi aspettare una scoperta miracolosa.

Però. Però. C’è altro. Mi è stato detto che meno ne parlo e meglio è: questo non lo capisco, e mi dico che non lo voglio capire.

Di andare nelle riunioni, alla radio o alla televisione, a discutere dell’abbandono della ricerca, non se ne parla proprio. Capisco che non ci siano le forze o le possibilità per interessarsi di così poche persone. Lo capisco e non lo posso accettare, naturalmente. Ma che ne sia vietata la discussione, l’informazione, la tragica chiarezza, no, questo non riesco a capirlo. Arriveranno le minacce? Le blandizie? Le false promesse? Avrò un incidente per strada?

Tu hai l’aria di uno che si preoccupa.

Lo sai già chi sarebbero i mandanti, diciamo gli interessati. Mi dico. Avrebbero addirittura l’idea di accelerare il decorso, di farmi morire prima del tempo, io e gli altri cinque-seicento classificabili, lasciando stare quelli che stanno male per la stessa ragione e non lo sanno. Loro sono fuori numero. Muoiono senza saper di che.

Sono bella quando mi arrabbio, vero?

Non dire che lo sono sempre, perché non accetto le banalità.

Oddio, male non sono, ma quando m’arrabbio ho qualcosa in più delle altre donne, quelle che sono belle sempre.

Tutto questo non lo sapevi. Qua dovevi venire. Al tuo paese grande, nella tua grande città, non c’è tempo o spazio per capire. Eppure è lì che si governa, si guarisce o si uccide.

Bhé! Buonanotte. Non aggiungere niente, perché non sapresti dire nulla di originale. Dico bene?

Domani sarò più gentile. Tu preparati meglio. Dovevi studiare di più.

Sembra da ridere.


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Ho raccolto la tua lagnanza legittima e gentile, senza bestemmie, né tue né mie, per ora.


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Non pensavo che fossimo già così vicini all’estrema verifica e alla dipartita.

Me l’hai detto solo ieri cos’è l’hk23G22.

“Se riesci a camminare e a respirare a sufficienza, fallo. Evita il ricovero in ospedale.” Te lo hanno detto chiaramente, e ieri ero presente anch’io; è stata mia la scelta, perché ho deciso di non rispondere alla tua domanda con delle banalità inevitabili, a te che ti sei già detta tutto: in silenzio voglio seguire un percorso senza parole, a distanza utile per sentire.

Ho saputo, chiedendo lontano, in confusione di parole. Perché ho chiesto, certo, ho telefonato, e non ho avuto vere risposte.

La tale sindrome sarebbe una situazione in cui inizi a usare ogni sostanza di riserva nell’organismo a una velocità troppo alta, dispendiosa tanto da esaurirti in poche ore. Solo un potentissimo sedativo può rallentare il dispendio, acquietarti e in quel sonno ritorna un equilibrio, con una conseguente ripresa. 

Se ritorna; perché una volta o l’altra quel sedativo ti uccide.

Quello che non sai, che nessuno sa, è se avrai un sogno fatto di incubi o uno stato di incoscienza progressiva, che si accompagna all’invasione di un silenzio assoluto; che è più della mancanza di suoni, così come c’è la mancanza assoluta di luce, per alcuni, e non la sua semplice assenza. Se ho capito; se non rifiuto la comprensione, per solidarietà e paura insieme.

I sintomi per ora sono stati dei rapidi preavvisi, che tendevano a protrarsi ogni volta per una piccola percentuale in più, progressivamente più estesa e con cadenze sempre più prossime. Poi ci sarebbero delle remissioni, delle soste, pause, che assomigliano a una guarigione, e ne sono il contrario. È la malattia che prende forza.


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Lo dico ridendo: sono una ragazza a cui serve una guardia del corpo, uno tosto, un vendicatore, un santo, un cecchino, una cosa del genere come nei film dove loro ci sono proprio, e io sarei una cliente speciale ma anche il loro fallimento, a sorpresa, perché non sono difendibile. Proprio.

Ora non rido più. Mi hanno avvicinato. Quelli che fanno le medicine – lo dico per brevità: gli stregoni.

Siccome non possono pensare a me, mi offrono del denaro per facilitarmi la vita, quel che rimane: oh! vorrei tanto far loro una sorpresa, sopravvivere cent’anni.

Ora facciamo un po’ di calcoli, o meglio poche riflessioni.


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Sono informata.

Hanno già ricevuto benefici fiscali, o anche sussidi finanziari; chiedono il nostro silenzio dietro pagamento.

Loro, cosa temono, avendo noi escluso che siano dei benefattori. Pretese. No. Le abbiamo abbandonate.

Di cosa hanno paura. Non di me, certo. Della mia malattia, sì, è così.

Io, e pochi altri, costiamo troppo. Quand’è il caso, ci aiutano a sopportare meglio un rapido finale di partita. Non sempre.

Se viene fuori che duriamo troppo e non sanno come truccare i bilanci – ipotesi improbabile – ci sarà una guerra fra cecchini, o meglio ce ne sarà uno che mi segue ogni momento col suo cannocchiale, sul suo rifle di precisione, con quella sigla che assomiglia tanto a hk23G22.

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