La Bohème e l’odore della povertà

 di Nene Ferrandi




Che freddo! Un albero di Natale disegnato sul muro, festoni e vischio colorati e due pacchetti dei desideri dipinti con cura minuziosa: i colori acrilici danzanti nei loro tubetti speciali e il libro “Les fleurs du mal”, del poeta maledetto Baudelaire. Che freddo in quella soffitta a Brera, un geranio rosso alla finestra, i piatti, quattro, e due pentole, su un tavolino improvvisato, il letto gonfio di coperte sovrapposte e un camino tenero di speranza con un pezzo di legno da consumare lentamente, mentre Lucio dipingeva e Mia recitava ad alta voce Rimbaud. La soffitta sudava povertà e sogni, un odore di rinunce e libertà. La Bohème a Milano negli anni 60 era voci, incontri, speranze, sperimentazioni, scoperte e un’indigenza avvertita, a volte spavaldamente esibita come segno di appartenenza a un movimento di idealisti che credevano in se stessi e nel futuro. 

“Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate;

E anche il mio cappotto diventava ideale;

Andavo sotto il cielo, Musa! ed ero il tuo fedele servitore;

Oh! quanti amori splendidi ho sognato!..

… Nel cielo le mie stelle dolcemente frusciavano

Le ascoltavo, seduto sul ciglio delle strade

In quelle belle sere di settembre in cui sentivo gocce

Di rugiada sulla fronte, come un vino di vigore;

Dove, rimando in mezzo a fantastiche ombre,

Tiravo, come fossero delle lire, le stringhe

Delle mie scarpe ferite, un piede vicino al cuore!” (Rimbaud)

“Chi non è mai stato Rimbaud, nei giorni di sole o di pioggia, nel tempo dei pianti taciuti nel cuore? Quel Natale era il matrimonio celebrato su una nuvola d’argento tra un poeta e un pittore, tra due sensibilità che sapevano volare. Scribacchiavo versi e cestinavo immagini, rubavo stelle e fango…per dare un senso all’inquietudine del vivere. Lucio, su cartoncino Bristol acquistato dal “Barba”, uno alla volta, spalmava i ricordi e i visi rugosi, a volte disperati di una Sardegna antica, con il mistero negli occhi. Quel Natale memorabile, sofferto ed esaltante, come le bollicine dello champagne. “Vieni da noi” avevamo detto a Ingmar, un “Madonnaro” norvegese incontrato davanti ad una Basilica sconsacrata, ma un madonnaro raffinato che amava riprodurre le Madonne più belle dei pittori rinascimentali.  La Madonna del Magnificat del Botticelli era la sua estasi, la delicatezza sognata, forse, da ritrovare in una donna. In un quaderno aveva catalogato le immagini attribuite a quadri del Tiepolo, Leonardo, Caravaggio, Antonello da Messina, Murillo, Raffaello: una meraviglia! Invitata anche Enrichetta e il suo cane vivacissimo, storica donna delle pulizie di una casa chiusa da anni in via Fiori Chiari. “Porto io il Panettone” aveva promesso. Lucas era, per così dire, di famiglia, con quella chitarra che raccontava visioni, tenerezza, riflessioni. E amore. Cantava Brel con trasporto, forse una preghiera…

“Quando abbiamo solo l'amore

per vivere le nostre promesse

Senza alcuna altra ricchezza

in cui credere, ogni giorno

…Quando abbiamo solo l'amore

da offrire in preghiera

per i mali della terra

tramite un umile trovatore 

…così senza avere nient'altro

che la forza di amare

avremo nelle nostre mani

Amici in tutto il mondo” (Jacques Brel)

L’esplosione di un futuro narrato a se stessi, al destino, con un calice di spumante, il risotto alla milanese con l’ossobuco pagato dal corniciaio sotto casa per un acquarello di luce e trasparenze di un mare desiderato. Il camino, quella sera, rideva contento, la festa cancellava i ricordi amari, esultava per i regali…gli acrilici avrebbero reso fiammeggiante come non mai un tramonto, Baudelaire avrebbe cantato la sua disperata malinconia. Chi voleva dormire in quella notte di luna pallida e lontana? Buon Natale! Il geranio trionfava di speranza”

C’era un’aria frizzante, una voglia sfrenata di confronto, un anticonformismo rivoluzionario  stava nelle radici delle intenzioni ideali, una sorprendente condivisione, un fil rouge di aspettative comuni, ognuno con le sue idee, le sue sperimentazioni. Il quartiere bohèmien per eccellenza era Brera, il bar più frequentato dagli artisti, il Jamaica accanto all’Accademia. 

“Ascoltavamo con rispetto Fontana, Dova, Crippa, Munari, Bay, che erano stati a Parigi, negli ateliers di Montmarte e dissertavano di movimenti nuovi che avrebbero rivoluzionato il mondo della pittura. Mi sentivo piccola piccola e non capivo tanti perché, ma era evidente che “il figurativo” era forse riduttivo, per una pittura moderna. “Mica tutti sono Picasso o Modigliani e neppure Fontana: ognuno ha scelto la propria strada…”, diceva Lucio, “ Io so fare acquarelli incisivi, non sbiaditi, facce con un loro perché…” Ma ci rodeva l’intuizione che forse non era sufficiente. “Andiamo da un gallerista all’avanguardia a Venezia, quello che espone Schifano..e sentiamo”, proposi. “Le opere sono ben fatte, il disegno accurato, ma sono piatte, solo descrittive, a volte suggestive, manca il perché, che potrebbe essere implicitamente denuncia sociale, giocando con i piani, con la grafica”, sentenziò il gallerista. Delusione e rinnovata determinazione “Accluderai al posto del semplice titolo, una mia poesia e vedrai… l’opera sarà completa”, lo rassicurai. E cercai con una bozza di esempio di chiarire

Non potete farci  morire come vermi da calpestare

La strada, un lungo viaggio da percorrere, 

il sole la luce calda del giorno,

Non potete rubarci il canto dei grilli

La tenerezza del vento, 

lo stupore di un fiore che nasce

Voi che ignorate le nostre mani tese

non potete riempirle di parole, 

con i pensieri del potere, della ricchezza.

Non potete distruggere l’amore

Dopo lunghe notti di discussioni, si decise che il primo piano rappresentasse la miseria della realtà con verismo e sfumato, in secondo piano con l’aiuto del segno anche della china, una scena di chi detiene il potere o la ricchezza con tratti caricaturali. Lucio preparò trenta acquarelli per la mostra promessa.

La mostra ebbe un successo memorabile che i critici applaudirono con convinzione. Al Jamaica se ne parlò a lungo, un mercante prenotò 10 pezzi ogni mese, Lucas si sentiva partecipe con le stelle negli occhi, la comunità bohèmienne …diceva “Ce l’hai fatta”, ma non era invidia, solo speranza. 

“Mi ritrovai con la testa tra le mani a parlare con il mio geranio, mentre i primi fiori di primavera, nell’aiuola del cortile, si lasciavano baciare dall’ultimo sole del giorno. “Se ne andrà…il suo volo lo porterà lontano… forse è giusto così… forse non servo più…forse è un diritto seguire un sogno…”

Lucio partì per Parigi con tante inutili promesse. Mia tornò a casa, con la madre, rispolverò il diploma di maestra d’asilo e trovò lavoro in un istituto privato. Nella soffitta come luogo d’appoggio, rimasero Lucas e la band che aveva formato per girare il mondo. 

“So che non torneranno né lui, né la mia “Bohème. I ricordi sono diventati briciole, lampi di luce…confido i miei perché sulla mia esistenza irrisolta, ad un canarino che canta la vita. Gli abiti lunghi sfolgoranti di colori di quella stagione, mi guardano dall’armadio senza capire. Scrivo ancora poesie che volano, ma solo per me”.


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