LA BUONA NOVELLA DI FRANCESCO GIUNTA

 di Accursio Soldano



Quando ci si siede davanti il proprio impianto stereo ad ascoltare un vecchio disco di un cantautore, uno di quelli che abbiamo comprato risparmiando sulla paghetta per la scuola il pensiero va a quei tempi e alla generazione di cantautori. Quando poi, dopo 50 anni, ci si ritrova non con una canzone, ma con un intero LP rifatto da altri, il primo pensiero sarà che non potrà essere bello come l’originale.

Provate ad ascoltare Lucio Battisti cantato da altri musicisti (in particolare gli ultimi cinque CD) o le canzoni di Tenco nelle versione più disparate e vi troverete d’accordo con me. 

E si può essere ancora più scettici se si tratta non di una canzone, ma addirittura di un intero LP, “La buona novella” il Concept album di Fabrizio de Andrè pubblicato nel 1970 e di cui si conoscono i brani originali, le cover dei più sparuti musicisti e persino gli arrangiamenti fatti con la gloriosa PFM.

E ancor di più (per i puristi accaniti), si può storcere il naso se l’intero album è tradotto e cantato in siciliano. Insomma, si può procedere all’ascolto con una serie di idee prestabilite e con una dose spropositata di scetticismo convinti che sarà l’ennesima cover fatta male. Ma si può essere dubbiosi sulla qualità del lavoro se non si conosce l’autore: il poeta e cantautore siciliano Francesco Giunta e la cura editoriale di Edoardo de Angelis.

 Ho ascoltato il CD “La buona novella” con i testi in siciliano di Francesco Giunta, un paio di volte e trovo il mio ascolto ancora incompleto.

 


La prima volta, come Ulisse dalle sirene, sin dall’inizio sono stato rapito dalle voci, quelle di Alessandra Ristuccia, Giulia Mei, Cecilia Pitino e Laura Mollica accompagnate al pianoforte da Beatrice Cerami.

L'inizio del CD con la voce di Cecilia Pitino che canta “L’infanzia di Maria” “forsi prestu parteru/o di sira nisceru” mi ha fatto passare in secondo piano il motivo per cui ero lì: ascoltare “La buona novella” di Fabrizio De Andrè, quella allegoria che, come dichiarò lo stesso cantautore, si precisava nel paragone fra le istanze delle rivolte del ‘68 e quelle dal punto di vista spirituale ... qui con i testi in siciliano cantata da sole voci femminili.

Che non vuole essere una semplice “traduzione” in dialetto di una serie di canzoni, quanto piuttosto un lavoro di valorizzazione dei testi originali facendoli rinascere con una nuova lingua, quella del dialetto siciliano.

Il primo ascolto è proseguito chiedendomi chi fossero Cecilia, Alessandra e le altre, e perché non le conoscessi. Poi l'ho riascoltato seguendo i testi e sono sicuro che Faber sarebbe stato contento e magari avrebbe suonato la chitarra, o recitato anche lui, qualche verso in siciliano. Mi tocca riascoltarlo per percepire i sospiri, le note e i suoni nascosti senza lasciarmi distrarre dalla potenza della lingua. E ascoltarlo più e più volte, con attenzione, con cura, come si fa con qualcosa di prezioso.

 

Francesco Giunta


Mi dice Francesco Giunta che “Arrivare a questa pubblicazione non è stato semplice. Ho lavorato a lungo a questo riadattamento senza mai pensare di renderlo pubblico. A suo tempo (ormai quindici anni fa) avevo riadattato "Tre madri" sull'onda dell'emozione generata dall'ascolto della versione in sardo di Elena Ledda. Non pensavo affatto di andare avanti e di fare un "riadattamento integrale", sia perché la ritenevo un'impresa ardua o meglio non fattibile, sia perché poteva essere considerata una operazione presuntuosa e di mera speculazione. Qualcosa però dentro di me si era insinuato, quella "Tre madri" diventò nel giro di un paio d'anni una sorta di nuova porta d'accesso a quell'opera meravigliosa, cardine della mia esperienza emotiva, alla quale io come decine di migliaia di altre persone dobbiamo molto per ciò che ci ha dato. Arrivata a metà dei miei diciotto anni fu una sorta di "romanzo di formazione", riaffermandosi in questa funzione con le opere successive del Maestro. Nel corso degli anni, poi, la mia scelta di scrivere e cantare in siciliano, cominciò ad alimentare (magari immotivatamente) come una cesura tra me e tutta la straordinaria cantautoriale italiana di cui mi ero nutrito in gioventù. Cominciai ad avvertire il bisogno di una "riconciliazione interiore", soprattutto con quell'opera fondamentale, il bisogno di riabbracciarla e di risentirla con l'emozione del primo ascolto. Da quel momento, quasi spontaneamente e on modo frammentario, alcuni versi di Fabrizio cominciarono a ripresentarsi in siciliano! Fu un'emozione grandissima: avevo trovato la strada per riabbracciare il Maestro nonostante la sua smisurata assenza! Ho lavorato per quasi un anno e quasi ininterrottamente, passando una delle mie "esperienze di scrittura" più intense e bella di tutta la mia vita. Ma rispondevo a un bisogno privato e profondissimo. Nessuna intenzione di rendere pubblica quella "intimità". Per anni quel lavoro è rimasto nei miei cassetti e nel mio cuore. Solo successivamente, per l'insistenza del caro Roberto Sottile (Docente di Linguistica italiana al dipartimento di Scienze umanistiche faceva parte del Comitato Scientifico dell’Atlante Linguistico della Sicilia) trapelò qualcosa in Aula Magna per i suoi studenti. Nel periodo più recente, le ulteriori e affettuose pressioni di altri amici, l'idea di utilizzarlo come base per un progetto di omaggio collettivo e al femminile, l'emozionata approvazione di Dori Ghezzi, hanno fatto sì che il "riadattamento" completato oltre dieci anni fa diventasse pubblico".

E meno male, dico io!

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