“IL LAVORO DEL LUTTO” LECTIO MAGISTRALIS DI MASSIMO RECALCATI

 

di Eleonora Rossi


Iris Sullivan, Threshold


«Di che cosa siamo fatti?» con questo interrogativo ha avuto inizio la lectio magistralis di Massimo Recalcati, noto psicoanalista contemporaneo, tenutasi domenica 22 ottobre presso il cinema Astra di Parma nell’ambito del festival “Il rumore del lutto”.

Recalcati fornisce una prima risposta al pubblico: siamo fatti di tutte quante le parole che ci sono state dette, siano esse parole di gioia oppure parole che ci hanno ferito. Poi continua affermando: «siamo tutto ciò che abbiamo fatto dei nostri incontri», positivi e negativi: gli incontri che abbiamo avuto con i nostri genitori, il primo amore, gli amici, ma anche tutti i luoghi che abbiamo visitato, i libri che abbiamo letto. E, come ultima risposta alla prima domanda, Recalcati afferma che «siamo fatti anche di tutti i nostri innumerevoli morti». I morti sono le persone che abbiamo incontrato lungo il nostro cammino e che ci hanno abbandonato: gli amori finiti, i maestri che ci hanno educato e poi abbiamo perduto, gli amici che hanno tradito la nostra fiducia, sorelle e fratelli con cui si è spezzato un legame. In poche parole «tutto quello che è stato e che non è più qui», per Recalcati in realtà non ci abbandona mai completamente perché è parte di noi: ognuno porta con sé inevitabilmente le proprie perdite, siamo circondati da assenze che ci vengono a trovare, divenendo in tal modo presenti nella nostra vita.

La morte secondo Simone de Beauvoir è "prematura", nel senso che è un evento sempre innaturale che accade prima del tempo poiché «non siamo fatti per morire ma per nascere» come affermava Hannah Arendt. Ne deriva che i giorni della vita umana siano giorni contati e costituiscano un'entità che portiamo con noi nella forma di "un'imminenza sovrastante" (Heidegger).

Ogni volta che facciamo esperienza del lutto (secondo la psicoanalisi, la reazione normale di fronte alla perdita irreversibile di un oggetto) si aprono due vuoti: il primo vuoto è quello relativo alla perdita dell'oggetto nel mondo, ossia il mondo, pur essendo quello di prima, senza quella persona non è più lo stesso. Il lutto trasfigura completamente l'immagine del mondo per come lo conoscevamo. Questo vuoto che si apre all'esterno però si apre contemporaneamente dentro alla nostra anima, come se la perdita di una persona scavasse dentro di noi una mancanza.

Ecco qui che Recalcati espone i tre diversi destini possibili del lutto, enunciati da Sigmund Freud: il primo destino è quello melanconico, in cui il soggetto resta imprigionato nel vuoto che si apre dentro di lui e si assiste ad una immobilizzazione del tempo poiché l'assenza dell'oggetto diventa la forma più radicale ed eterna della sua presenza. Nella melanconia il tempo della perdita risulta inscindibile dalla separazione dall'oggetto perduto, poiché manca l'intervallo di tempo compreso che sarebbe il tempo dedicato al lavoro del lutto. Il secondo è il destino maniacale, nel quale il dramma della perdita dell'oggetto non suscita alcuna risonanza emotiva ma, anzi, viene immediatamente sostituito con un altro oggetto. Si tratta di una reazione di negazione del lutto, in cui non esiste il tempo dedicato all’elaborazione della perdita.

Pertanto il lavoro del lutto si configura come l’unica alternativa, ponendosi a metà strada tra la mania da una parte e la melanconia dall’altra. Si tratta di un intenso lavoro psichico che implica necessariamente un lasso di tempo, per ricordare e per poter trasformare il dolore della perdita in una rinascita. Nella separazione dall'oggetto perduto noi tratteniamo qualcosa della persona che ci ha abbandonato però la vita non resta bloccata. La memoria dolorosa di chi non è più qui ad un certo punto esita nell'oblio: il lavoro del lutto termina quando la vita torna ad essere leggera ed il peso della perdita lascia spazio ad una nuova linfa vitale. 

Il soggetto che ha compiuto un proprio lavoro del lutto trasforma la perdita dell’oggetto in una separazione che, tuttavia, non è mai definitiva in quanto «resta un frammento di luce» secondo Recalcati. Ciò equivale a dire che nel nostro cuore resta una memoria viva di tutti i nostri morti ed il nostro compito rispetto a loro è far brillare quella luce portandoli con noi.  

Al contrario della tradizione che tende a vedere nel passato alcuna possibilità di azione, la visione offerta da Recalcati, a mio parere, risulta rivoluzionaria: il passato non si configura più come un’entità a sé stante, in quanto già accaduto, bensì assume le sembianze di un passato vivo che continua a far parte di noi e che ci caratterizza, senza il quale non potremmo essere le persone che siamo. Il nostro passato, fatto di parole, di incontri, dei morti che portiamo con noi, continua a bruciare da lontano e diventa una testimonianza che illumina e guida il tempo presente.



Massimo Recalcati (foto Repubblica Parma)

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