LA LUNA SOTT'ACQUA, IL VAJONT RACCONTATO DA ALESSANDRO NEGRINI

 di Laura Bonelli



La caratteristica più interessante di Alessandro Negrini è la capacità di raccontare la dualità  dell'uomo portando lo spettatore a cogliere l'aspetto poetico che si cela dietro la tragedia, conducendolo in un punto profondo del proprio animo, quasi a cercare una soluzione metafisica ai conflitti. Documentarista sui generis, nei suoi lavori guarda la realtà attraverso l'introspezione, alternando temi sociali scomodi a danze oniriche meravigliose. La luna sott'acqua è il suo ultimo lavoro, ambientato a Erto, uno dei comuni devastati dalla tragedia innescata dalla diga del Vajont. Forse il racconto più amaro e arrabbiato di tutti i suoi film senza dimenticare la poesia e la meraviglia.

La luna sott'acqua è una co-produzione Italia Slovenia è prodotto da Incipit Film in coproduzione con Casablanca Films e in associazione con Incandenza Film.


 Com'è nato il progetto del documentario?

Sono sempre stato attratto dai luoghi di confine, ed Erto è un luogo che confina con tutto. Confina con il bordo di una montagna, confina con la vista di una diga, e confina con una memoria che è sempre domanda, perenne richiesta di una spiegazione rispetto a quello che sempre rimarrà eticamente inspiegabile: come sia possibile far morire migliaia di persone semplicemente per  servigio per l’unica ideologia rimasta: il profitto. Quando arrivai a Erto, e ci tornai, frequentando lungamente gli ertani, ebbi questa precisa sensazione: quella di un paese sospeso. Sospeso tra passato e presente, tra desiderio di non perdere ciò che il potere da sempre cerca di edulcorare - la storia di chi resiste – ed il desiderio di poter camminare verso una prospettiva nella quale il dolore diventi altro: una sorta di monito e canto insieme. E così decisi di raccontare questa storia incredibile, fatta del Vajont ma soprattutto del Post Vajont, totalmente inenarrato, con questo timbro: quello di un bilico tra realtà e sogno, tra la concretezza e al contempo l’intangibile sospensione nella quale Erto vive.


 Il Friuli è un luogo in cui memoria e dolore formano spesso un connubio inscindibile... Quanto dolore è ancora presente a Erto rispetto alla tragedia del Vajont?

Il dolore degli ertani ha la funzione di una memoria storica collettiva. Non c’è un ertano che non abbia avuto un parente, un amico, un conoscente che non sia o scomparso o  costretto ad abbandonare la propria terra. Non è solo una memoria di singoli, ma una funzione vitale: quella dell’essere consapevoli – insieme – che non ci si può anestetizzare di fronte alle ingiustizie, piccole o enormi come quella del Vajont, in particolare quelle provocate dalla cupidigia del potere. Ma il dolore degli ertani è anche fatto di pudore. Non amano spettacolarizzarlo. E poi sono abitati da una grande forza: quella di aver resistito, contro tutto e tutti, ed essere riusciti a tornare a vivere nel loro paese, nella dignità del sapersi soggetti di quella resistenza. 




 Colpisce la bellezza della fotografia: una natura potente e cristallina, contrapposta a un paese in cui ci sono ancora case che cadono a pezzi...  

E’ il contrasto visivo che c’è dentro le favole. La differenza è che a Erto la favola fu rubata. Fu rubato loro il futuro. Una natura specchio, come quello che si vede appeso in mezzo al nulla nel film, per me una scena sì onirica ma fortemente simbolica: gli ertani si specchiano nella natura perché  la natura come loro è stata defraudata, e come loro ha resistito. Erto non esisterebbe oggi senza quegli ertani che tornarono illegalmente a viverci. Ma in quello specchio, in alcune sere, appare anche la luna rubata e ritrovata. Quella luna è anche la loro lotta, che è servita sì agli ertani, ma serve anche a noi: a ricordarci che è sempre possibile resistere per esistere veramente, anche tra case che cascano a pezzi. 


La gente del luogo si è prestata volentieri a collaborare con te?

Ho passato moltissimo tempo con gli ertani (il film si dipana nell’arco di 10 anni): non avrei potuto fare “La luna sott’acqua”, cosi come l’ho fatto, senza avere loro con me: la fiducia è stato il terreno fondamentale, grazie alla quale ho girato scene che mai avrei potuto fare senza, anche quelle più surreali e oniriche. Il mio caro amico fotografo Mario Dondero diceva che per lui era fondamentale far capire e far sentire alle persone che fotografava, che loro non erano importanti perché doveva fotografarle, ma perché esistevano. Gli ertani erano e sono importanti per me non perché dentro al mio film, ma perché esistono, e nel loro esistere mi hanno donato un pezzo di storia invisibile e tuttavia potentissima: una storia che dice che si può dire di no al potere, che si può tenere lo sguardo alto anche quando si rimane fuori dai giochi della politica, anche quando non si è più rappresentati da nessuno. E sono importanti per questo non solo per me, ma per tutti noi. La loro storia è un esempio di resistenza contemporanea, di un sogno inscalfibile: il diritto ad esistere nella dignità. 



Il silenzio della natura si contrappone agli abitanti di Erto che cercano ancora di far sentire la loro voce, inascoltata...

Per gli ertani la natura non è qualcosa al di sopra di loro, una deità: è quasi una concittadina: come loro ha subito le stesse ferite, e come loro ha resistito senza arrendersi alla morte della propria identità. Sono come quel bosco che è sopravvissuto anche rotolando giù  con la frana, anche con i suoi alberi distesi in orizzontale. E’ vero come tu dici che gli ertani cercano di far sentire la loro voce ma, ribadisco, è una voce piena di pudore, che non cerca la spettacolarizzazione della tragedia, ma una ricerca continua. E questa ricerca, che è presente nel film, è una ricerca antica, ancora più antica del Vajont, come quella dei galeotti che furono mandati in esilio a Erto dalla Serenissima. Questa ricerca che si dipana nel film  documenta il reale e l’intangibile, il sogno collettivo di queste persone che si traduce in tanti luoghi o comunità nel mondo. E credo che questa loro storia sia attuale più che mai: il dibattito sul diritto ad esistere di comunità e popoli si snoda ribaltando l’idea di confine, di dissenso. E ricordandoci che esistono piccole grandi storie di resistenza ci accorgiamo che queste storie hanno un filo rosso che le lega: Il fuori è dentro. La frontiera è solo quella tra umano e disumano, tra giustizia per tutti o solo per alcuni.


Il film sta girando nei cinema in tutta Italia, a breve anche in Inghilterra (è nella selezione ufficiale al Crossing the Screen Festival di Eastbourne). Come reagisce il pubblico che vede il tuo film anche in luoghi così lontani da Erto e da quelle zone?

Una delle cose più belle per me è constatare come questo film su questa vicenda così lontana nei luoghi e nel tempo, parli a persone lontanissime tra loro. Sono stato di recente a presentarlo in Puglia, e una signora a fine film mi ha detto emozionata: “Non me lo aspettavo, ma questo film parla anche di me”. Chissà a quale diga personale si riferiva, chissà se la sua vita ad un certo punto è tracimata. “La luna sott’acqua” forse parla a qualunque persona abbiano, ad un certo punto e da qualche parte nel mondo, “rubato la luna”. Con l’invito a riprendersela la luna, anche quando è stata scippata, o inabissata, o semplicemente nascosta dentro quella terribile nebbia che è l’amnesia del sogno di poter vivere finalmente e nuovamente una vita degna. 



Il regista Alessandro Negrini sul set di La luna sott'acqua


La tua cifra stilistica è molto legata all’onirico, all’invisibile, con uno stile non convenzionale ma sempre in una chiave che da voce e volto agli ultimi, o ai dimenticati. Com’è nata l’idea del sogno collettivo, molto efficace devo dire nel far emergere il tema che tu dicevi, dov’ è casa?

L’idea del sogno collettivo come strumento narrativo nel film su Erto mi venne in mente anni fa, poi confrontandomi con Fabrizio Bozzetti, co-sceneggiatore del film, abbiamo capito che potesse e dovesse essere non solo un escamotage narrativo, ma un vero e proprio livello che, intrecciato al reale, ci portasse nelle radici di quella domanda: che cosa significa essere “a casa”, come si diventa concittadini, comunità? Mi piace raccontare la Storia attraverso queste fenditure, questi specchi. Nel film emerge negli ertani, ognuno a modo loro, questa dimensione onirica dove la natura è anche il luogo di un inconscio collettivo abitato da miti, desideri, paure, la consapevolezza di come la stessa acqua sia stata a tempi alterni promessa e condanna. 


Sei molto impegnato anche sul tema dei diritti umani e con il tuo impegno civile ti esponi anche sulla responsabilità da parte del mondo della cultura, spesso troppo silente e quindi complice. “La luna sott’acqua” ad un certo punto pone anche questa domanda: qual è il ruolo dell’arte, ancor più nei luoghi della tragedia?

Oggi l’unica alternativa che viene concessa all’ arte è la scelta Tra elitarismo o mercificazione. 

Una delle cose più avvilenti che oggi si sente dire un artista che si occupa di “politica” – e la parola politica è nobile, e dobbiamo riprendercela - è il ritornello che talvolta mi sento dire: «torna a occuparti di cinema. O di poesia. O di letteratura. 

In una società di in-trattenuti, si spiega che l’arte deve essere mero intrattenimento. Ma la domanda è: a cosa serve l’arte nel tempo ferito? Io credo serva a cercare, o ritrovare, un discorso nuovo, la frontiera tra umanità e disumanità. Serve a porre questo tema. Come è possibile creare bellezza, arte, o parlarne quando questo crearla o questo parlarne accade in un tempo ferito, oltre l’umanamente accettabile, dove l’uomo è merce quando va bene, e carne da macello per i potenti quando va male? Carne da macello ovunque: nei cantieri dove gli operai muoiono perché la sicurezza è un costo fastidioso, carne da macello di un intero popolo, come quello palestinese? 

E allora, a che serve l’arte in un tempo ferito? Serve a sollevarci dalla polvere, a farci levare la testa verso la luna. A farci rialzare.  Come una corporazione, gli artisti furono prontissimi a balbettare una protesta soltanto durante i lockdown, quando ad esser intaccato era il perimetro della propria attività, le proprie serate, le proprie produzioni, i propri set. Ma c’è un limite oltre il quale il silenzio è parte del crimine,  vi è un tempo dove non è più possibile pensare alle strette di mano che si possono perdere, a qualche spettacolo in meno che si rischia di avere. A cosa ci serve parlare di bellezza, ignorando l'infamia? A cosa servono le parole di Neruda, di Shakespeare, dei poeti, i film, le canzoni, i dibattiti sulla bellezza - vivendo muti sordi e ciechi nel tempo in cui soccombe ogni centimetro di umanità? A cosa serve quest'arte, ridotta a mero outlet del bello igienizzato da ogni possibile finestra sul presente? 


L’arte può essere pericolosa se non intrattiene solamente?

Ѐ molto, molto chiaro: chi detiene il potere, dal governo in su, anche se moralmente sfasciato, corrotto, incapace, ha le idee chiare su di una cosa: che cittadini più ignoranti, più remissivi, più intrattenuti, sono più governabili. Questa è la parola magica con la quale ci convincono: la governabilità. La storia di Erto è la storia non di individui che lottano per il proprio pianerottolo, ma è la storia di un “noi”, alla faccia della governabilità, dove essere liberi significava essere liberi insieme. 


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