AVISHAI COHEN AL PIACENZA JAZZ FESTIVAL


Testo di Ornella Altavilla
Foto di Alberto Cataldi 



 
Il Piacenza Jazz Festival arriva anche quest’anno al capolinea e, dopo un calendario di concerti ed eventi di importanza internazionale, si conclude il 5 Aprile con Avishai Cohen e il suo quartetto. L’artista era già nel programma del Festival nel nefasto e innominabile 2020, ma quel concerto non ebbe mai luogo generando un’attesa carica di aspettative e di emozione per il pubblico del Festival che ha accolto con un sold out (preannunciato) gli strepitosi musicisti israeliani sul palco dello Spazio Rotative.




Avishai Cohen (tromba), Yonathan Avishai (pianoforte), Barak Mori (contrabbasso), Ziv Ravitz (batteria) suonano assieme da anni e il profondo legame artistico che li unisce è uno degli ingredienti principali della loro musica ben riuscita: non si tratta più soltanto di condividere un giro armonico o una melodia ma di plasmare a più mani un’idea musicale, qualcosa che va ben oltre le note. La scaletta è un racconto, una meditazione che prende le mosse da Will I die miss will I Die? dall’album Cross my palm with silver edito da ECM nel 2017; il secondo brano non ha ancora né un titolo né un album pronto ad ospitarlo. È Avishai Cohen stesso a presentarlo raccontando il difficile contesto storico in cui è venuto alla luce: accenna qualche parola al conflitto in Siria ma non si dilunga troppo e, come un augurio colmo di speranza, pronuncia le parole “Let the music speak” che per un attimo sembrano annientare il rumore della guerra e sprofondano in un suono gonfio di lacrime e pace.



Il concerto si sviluppa come un unico flusso di pensieri che riempie la sala di immagini e suggestioni grazie anche alle ampie zone dedicate alla libertà di improvvisare e di esprimersi e all’effetto del delay della tromba che trasforma il teatro in uno spazio siderale in cui tutto ha un senso di apertura e sospensione
La qualità dell’affiatamento del gruppo, il livello della bravura tecnica e la ricerca sonora rendono questa musica impossibile da confinare in un genere prestabilito o in una categoria descrittiva rigida. E a superare e a rompere le barriere dei generi arriva un meraviglioso Ravel, con uno dei più bei pezzi mai scritti: il concerto in Sol Maggiore.



La musica rapisce e il tempo cronologico sembra non esistere più ma, come un incantesimo che svanisce, arriva l’ultimo brano, un bis composto sulle note di una melodia creata da Amalia, la figlia di Avishai Cohen, per salutare il pubblico incantato, commosso e, sicuramente, non più lo stesso.







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