ALCINA, IL DEMONE MAGGIORE


di Bruno Pompili






Ogawa Haritsu (Ritsuō) - Head of Female Demon, Metropolitan Museum of Art




Le strade sono piene di fantasmi oscuri o accecanti.

Luminosi o spenti, inquietanti si sono fatti gli oggetti.


Una attenzione ai rapporti fra le cose si è lasciata di nuovo stravolgere da un ricordo che serpeggia nel transito dei giorni. Tanto si è modificato il passato, e anche la visione degli episodi sui margini illusori del vivere, che quei fantasmi pure se richiamati a vera voce si perdono.

Più pungente si spinge un arco fra il giorno e la notte, meno sfuggente corre un segno fra crepuscolo e tramonto, ai confini ambigui del presente. Slanci inattesi possono indurre, improvvisamente inducono, a scolpire i possibili incontri in resistenti concrezioni calcaree, in statuette protettive.

Questi totem della memoria occupano un posto non fisso, echeggiante, insistente e sempre incredibilmente diverso, lungo le arcate della ferrovia soprelevata, dietro le semicolonne del portale barocco accanto alla fontana grande, fra le tamerici arborescenti del lungomare, ai numeri sempre ricorrenti delle porte da cui entrava o usciva (usciva, il più delle volte) Alcina con la sua sacca gonfia di ritagli di giornali, di fotografie sgualcite.

Erano i suoi occhi saltuariamente strabici a dare l’idea di una sua presenza incerta, almeno fino a quando non guardava e parlava da una distanza così ravvicinata da far sembrare tutto il mondo della strada e delle piazze raccolto in un alone sfrangiato o in un saluto: poteva essere sia per un incontro che per un addio.

Gli scambi con Alcina erano coincisi così a lungo con il percorso di quanto andava fatto per obbligo che alla fine agivano in noi come il ritmico pulsare di una esigenza ignota. Era divenuto questo bisogno così complicato, tanto indecifrabile, che tutta la città finiva per evocarlo come se fosse Alcina stessa, con le parti del suo corpo oscuro, a reggerne la struttura, ponti e gallerie più di ogni altro elemento.

Alcina. «Ti ho sognato che ti incontravo, senza averlo chiesto, al mercato della piazza selciata. Per questo ero certa di vederti oggi per caso. Se poi ti ho incontrato lungo le scale della stazione, cosa cambia. So che stai per partire. Anch’io me ne vado.»

La città si è da allora quietamente alterata, e sedersi all’angolo delle strade insieme ai questuanti e ai bambini degli ambulanti è diventato il momento più disorientante, poiché non era vero che partivo. E Alcina semplicemente aveva smesso di sostare lungo il colonnato addossato alle antiche mura. Stava rinchiusa da qualche parte, con altri progetti che non erano quelli della sua libertà – così mi avrebbe spiegato tanti anni dopo, quando anche il ricordo del suo nome si era pietrificato. Ma adesso che ancora rimbalza la sua assenza dietro molte figure somiglianti, sembrerebbe apparire con gli occhi sempre allusivi del dire «mi troverai là dove sai».

Continua a mordicchiare i suoi propri capelli con un gesto di nervosa occupazione nel conversare, più coinvolta ad ascoltare che a dire, sempre incerta sulla sua vera presenza. Erano i suoi occhi così neri e così bianchi da far sembrare che tutte le sfumature naturali si assommassero in un vortice di chiaroscuro, dove era la luce bianca e ondulante a dominare. Per questo la notte intorno a lei era popolata di inconfondibili lampi.

Quando un minimo di quiete stabile si diffuse nella città, c’era da pensare che veramente Alcina se ne fosse andata.

Le persone d’improvviso battono alla soglia degli occhi. Infatti i vestiti appesi alle vetrine invadono l’attenzione e fanno domande: quali corpi li possono abitare, e quale tra le persone conosciute risulterebbe a tal modo fulminante per la memoria, un respiro di rimpianti.

Altre figure incombono, da chiarire e collocare, se sta qui la questione.

Ancora una volta infatti Alcina aveva innescato la condizione in cui si vorrebbe comprendere (fosse anche un piacere confuso) e non essere obbligati a interpretare. Capire, invece di essere confinati a intuire, col continuo sospetto, col dubbio moltiplicato di aver sbagliato. In agguato sta l’obbligo non eludibile di ricominciare i calcoli del detto e del taciuto, la ricostruzione delle corrispondenze, delle frasi incomplete o mal ricordate.

Splendono gli oggetti, per un tempo: al paragone con gli animati, si pongono così chiari, silenziosi, estranei, liberi, certi. Ma infine, dopo tanti spostamenti del dire, sono inquietanti essi stessi, e coinvolti nel silenzio. È quando la luce si indirizza sulle persone che le parole si perdono.

Resta da osare una strada più semplice, facendo corrispondere le immagini a esperienze già avvenute, catalogate e infine esorcizzate. Forse è così più facile giocare con i ventagli delle possibilità, ma allora diventa inevitabile frazionare le persone, sdrucirle, frammentarle; e più si smontano e più complesse e irraggiungibili, e follemente indefinibili risultano.

Intuire, alla fine, resta di nuovo l’unica via disponibile; e coraggiosamente fidarsi, con fragile momentanea disinvoltura.

In quale momento fu accettato lo scambio del dirsi, e l’analisi condivisa dei ricordi, nessuno di noi più sa; così, d’improvviso, si era presentato un ancora più infido indagatore. Minaccioso, inaccettabile un inquisitore, distruttivo, o banalizzante: «per capire», diceva fin dall’inizio. La verità è dunque nella molteplice possibilità di essere vera? Non doveva essere in un amore la miracolosa abolizione del bisogno di sapere, di conoscere accanitamente?

Ma bisogna ricordare che anche l’indifferenza si adegua in silenzio all’imprecisione, e non si cura dell’incoerenza.

È vivere, e insieme capire il vivere, il demone maggiore: a quale parte di sé, a quale parte dell’altro, in quale invasione sulle cose occorrerà piantare la barra delle sproporzioni accettate: presenze, interessi, passioni, delusioni, crudezze, in uno spazio corrosivo quanto il tempo è corroso.

Gli occhi in chiaroscuro di Alcina erano portatori di confusione, prima di tutto perché dichiarava di amare i colori, e li cercava ovunque, tanto che diceva di essere lei stessa colorata. Era un suo segreto inimmaginabile a tenerla intrisa alle cose nascoste. Altro era il suo apparire, altri i confini del corpo, e la forza della sua lucida gravità era fatta di sconfinamenti nell’imprevedibile. Giungeva a essere di una chiarezza baluginante, inventava frammenti di amore verso tutto; sintetizzava di persona tutte le più diverse trazioni delle giornate, e per questo il tempo della sua presenza e della sua assenza finiva per diventare luogo, e quel luogo era lo spazio della sua bocca capricciosa che diceva messaggi inconsueti quanto lei stessa era improbabile.

Bisognava per forza fidarsi dei suoi occhi, di uno strabismo casuale indotto dall’intensità del vedere, che non era un moto del rifiutare l’oggetto osservato, e invece l’avviso di una completa appropriazione della cosa, tanto che subito diventava per lei superfluo guardarla.

Gli occhi di Alcina, quando ti fissavano e poi sembravano disorientarsi, erano la voce di un legame totale il cui risultato era una inquietudine, e poi un vuoto assoluto quando volgeva le spalle per dirigersi ad altri luoghi e ad altri tempi.

Non restava più nessun modo usabile per ricordarla, per tenerla in vita (capitalizzarla, dicevo, e lei rideva) intorno alle proprie certezze, poiché portava via sempre tutto con sé. Lo sforzo per rievocarla dopo il suo passaggio rapido e divorante andava applicato alla ricostruzione di uno spazio devastato, a rimettere al giusto posto le coordinate, le misure (mi definì insensatamente suo ultimo amante), essendo lei sempre innesco di sproporzioni esplosive nel ricordo di chi la volesse stabile, o concreta.

Le domande che le si potevano porre erano quanto di più inutile, perché non rispondeva mai. Imparando a chiedere in modo ben scelto, al momento opportuno, si potevano ottenere dei monosillabi; è così che il suo sì o il suo no, un ironico sorriso se poi non usava neppure quei gridi, potevano per un istante costituire una vita lunghissima o una morte immediata. Con quale tempo di durata, e in quale spazio, si poteva capire Alcina, che finiva per esaurire tutti, come la vita assorbe chi vuole stringerla da presso?

Si poteva forse nutrirla con oggetti già noti per la loro bellezza inconsueta. E allora Alcina si specchiava, a volte si rattristava al paragone di ciò che non si sentiva certa di volere o di poter fare. Il suo dubbio, inquieto per un istante, era l’unico segno della sua umanità, oltre a momenti di tale giocoso infantilismo che facevano capire come anche lei era una donna, o poteva esserlo, o lo sarebbe divenuta; cresceva e si faceva piccola, a piacere. L’unico modo per vederla felice sembrava consistere nell’offrirle quanto di bello si può inventare, per provocarla a una misura, ma non a un paragone.

Ormai era chiaro a tutti, o forse solo a me stesso, che Alcina era inafferrabile se non in un tempo brevissimo e in uno spazio estremamente ridotto, che dovevano essere il tempo e lo spazio di un suo sorridente stordimento: subito dopo era destinata a sparire, e nulla serviva per fissarla.

«Non chiedere a me, che non lo so e non lo capisco, quali sono i limiti.»

Così era scomparsa già una prima volta.


Era amare Alcina, e capirla, una fatica pari solo a una lotta frantumata e ripetuta in campo chiuso con un demone sibillino, che quando ti rivela la chiarezza è solo al margine inconfondibile della notte.

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