Il punto di vista di Olivier Fredj sull’Orfeo di Claudio Monteverdi


di Ornella Altavilla

foto di Alberto Cataldi






Monteverdi Festival, quest’anno alla quarantunesima edizione, riparte dalle origini.

È con Orfeo che la Città di Cremona festeggia il suo eterno concittadino Claudio Monteverdi. Dopo poco più di 400 anni e dopo solo qualche mese dal riconoscimento, da parte dell’Unesco, di patrimonio dell’umanità, l’opera lirica celebra i suoi inizi con la regia di Olivier Fredj, con l’ensemble Pomo d’Oro sotto la guida del Maestro al Cembalo Francesco Corti e il Coro Monteverdi Festival- Cremona Antiqua.

Il fermento è grande per un evento che, già da mesi, si fa attendere in un Ponchielli completamente esaurito, splendente e fiero di riaprire le pagine della storia dell’Opera.

A ridare lustro e nuova vita alla drammaturgia di Orfeo è il punto di vista di Olivier Fredj che condensa nel concetto di “sguardo” la proposta del mito.


 

Ripercorriamo il viaggio di Orfeo nel mondo ignoto dell’ al di là. Il giovane regista scava nel passato per portare alla luce ancora una volta il mito, la favola e la magia: siamo in un “non tempo” e in un “non luogo”, in qualche zona che conosciamo tutti, ricca di simboli e di riferimenti mai completamente o letteralmente decifrabili perché rimessi all’interpretazione del pubblico. Qui troviamo Orfeo, un mito con fattezze umane, vestito di abiti contemporanei che ama e soffre per amore come tutti noi, si strugge nel dolore e si dispera. Assieme a lui Euridice che, nella narrazione di Fredj, si confonde e si fonde con la Musica, motore della vicenda. Orfeo, nella sua natura più umana che mai, dimostra un coraggio sorprendente: decide di scendere nelle profondità sconosciute degli inferi incredulo e inconsapevole del suo potere ma mosso dall’ ardente speranza di riportare in vita la sua amata.

La musica è dramma essa stessa diventando azione assieme alle parole e ai gesti dei personaggi.

La narrazione non dimentica i riferimenti mitologici, disegnati sulle tuniche dei pastori, nelle immagini retroproiettate sui teli delle scenografie, disposti quasi a mo’ di rebus per confezionare simboli che conferiscono al dramma l’aura di un lontano chissadove. D’effetto il grande tavolo sul palco che sembra fungere da altare, e poi da talamo per trasformarsi (forse) in una lapide alla notizia della morte di Euridice. Tutti gesti e immagini che conservano i contorni della suggestione guidando lo spettatore verso una riflessione parallela alla vicenda.

La destinazione del viaggio è un inferno gentile in cui anche le braci piovono delicatamente fra le parole ctonie di Caronte, un inferno che si commuove ma resta inesorabile: Euridice muore di nuovo e Orfeo, vinto da se stesso, ritorna dal regno dei morti, rassegnato ma non solo. La Musica, infatti, resiste e permette al nostro mito di rompere la quarta parete e imbracciare un arciliuto che dalla buca dell’orchestra gli viene offerto per suonare lui stesso gli ultimi passaggi di quel viaggio musicale che con un immenso stupore ancora resiste ai generi, ai nuovi codici linguistici e ai secoli






















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