LA MEMORIA BRUMOSA DI DEIANIRA

 

di Bruno Pompili


Gerald Edward Moira, Heracles and Deianira (1893)


Le linee del corpo pallido di Deianira si confondono con le pieghe delle lenzuola; restano visibili macchie ormai asciutte di sudore, e appena più scuri triangoli d’ombra.
Non era sempre stata così pallida. Al contrario, una bambina ombrata che si nascondeva nella sera, e rispondeva solo alla chiamata del nome; poi smise. Da allora appariva e spariva a propria volontà, oscura nella notte, chiara al sole, dunque inafferrabile.
Più tardi sembrò che ciò dipendesse dall’amore confuso, a se stessa inconfessato a lungo, orientato su Nesso, figura prestigiosa fra i centauri, prima di unirsi per la vita e per la morte a Ercole.
Ercole era molto esigente, e infine esclusivo; l’altro mostrava qualche difficoltà nell’approccio, inizialmente a causa delle quattro gambe, o quattro zampe; ma una volta entrato in rapporto, Nesso travolgeva e poteva restare indimenticato se ci fosse stata una vera partecipazione.
Il legame ufficiale stabilito con Ercole era comunque buono, quasi come il galoppo del centauro; alla fine divenne dominante, assoluto, avendo estirpato ogni memoria: come un passato sognato che non chiedesse più di essere rivissuto neppure in sogno, casualmente.
Deianira era dunque libera, senza sapere tutto, come invece riteneva nella sua tranquillità; solo inquieta quando Ercole – chiamato Eracle dalla sua gente – si spostava per il mondo, per grandi imprese o per lavori molto faticosi rifiutati da tutti.
Lei capiva che, viaggiando, doveva sicuramente incontrare persone di ogni genere, e anche femmine di qualità, di certo capaci di impressionarlo. Per il momento era ancora sicura di sé, e molto giovane; non poneva dunque nessun tipo di questione.

La memoria recente le bastava, quella remota non tornava.
Nesso però la seguiva di nascosto, riuscendo con molti trucchi a non farsi scorgere: un gioco anche per lui. Finché la vide addormentata, nuda, pallidissima da confondersi con le linee ingarbugliate delle lenzuola, macchie numerose di sudore e rari triangoli scuri sparsi nelle pieghe, defilati negli accumuli delle stoffe, come altre Deianire stanche e sudate, un gioco di specchi che rovesciava immagini insieme a memorie.
Quando Nesso si fece scorgere, per una scelta forse improvvisa, la memoria in Deianira rifluì tutta in un colpo: fu facile cosa, una lunga corsa, a nasconderli nelle gole inesplorate del monte Pelio.
Se per tanto tempo Deianira scompariva e riappariva agli altri, ormai si assentava da se stessa. Una nebbia si muoveva dentro di lei, alterava riflessioni, celava ogni immagine che potesse orientare passi e parole. Per questo aveva anche smesso di parlare, dominata da un presente che non le apparteneva; infine non si ritrovava in nessuno, né a se stessa tornava riconoscibile.
Non si dava a Nesso, era lui che la prendeva.
Poi il fiume Anfriso dove il centauro viveva, o passava il proprio tempo, si fece quieto. Era lo stesso fiume che aveva ostacolato un suo primitivo incontro con Eracle prima di esserne vinto, e in quel lungo periodo di secca Nesso parlò, come uno che sta per morire e vuole essere pacificato. Mosse per primo frammenti di ricordo, che Deianira voleva mettere in ordine, pur con difficoltà a collegare pietre, foglie, stagioni.
Di fronte alla sua assenza di mente prima, poi di corpo, Nesso trovò che lei non si compiaceva più di nulla; era dunque venuto il momento di andare altrove. Partì, e il silenzio lasciato fu
allora colmato dalla più antica memoria di Deianira, che ricostruì la sua casa, aspettando il ritorno di Eracle, con molta pazienza sapendo di dover nascondere una fase non spiegata
dell’attesa.
Tutti i suoi dubbi, le sue incertezze nel capire gli eventi, si orientarono a cercare una causa remota che ne alleggerisse la confusione. Pensò infine che la colpa era di Eracle, che le sue assenze erano troppe e troppo lunghe, che certamente trovava altrove quel che lei non gli dava: se così era.
Prima giustificò in sé il suo lungo intervallo frequentato con Nesso, poi si fece nascere immagini e fantasmi, che erano sempre femmine avvinghiate al suo sposo, alle quali lui non
resisteva mai.
Infatti, proprio secondo la sua recente certezza, Eracle tornò con una carovana di prigionieri, ricchezze e schiave, alcune delle quali abbacinarono i suoi occhi per eleganza, proporzioni e imprevedibile armonia. La portatrice di bellezza dominante fra tutte aveva un nome, ma lei si rifiutò di memorizzarlo; lo sentiva mentre lo dimenticava.
Eracle le mostrò con precisa forza, senza aprire discorsi, che nessuna poteva mai offuscare in lui la sua fedele immagine; allora Deianira fu liberata da un incantesimo, quella nebbia che Nesso aveva alzato dentro e intorno a lei. Ora anche il nome di Iole, la incomparabile estranea, poteva essere pronunciato come un suono qualsiasi.
Ottenne infine che al viaggio successivo lo avrebbe accompagnato. Questa promessa era una luce, e le ombre erano solo insetti soffiati via dalla brezza. Il giorno di un nuovo viaggio arrivò; la partenza fu in ordine con le promesse fatte.
C’era da aspettarselo che le stagioni cambiassero, che i guadi dei fiumi fossero impraticabili, che poi a traghettare i viandanti ci fosse una volta o l’altra, in un qualche fiume, proprio Nesso,
che aveva avuto il compito di farlo.
Sciocca presunzione, orgoglio smisurato, così Eracle si spinse nei gorghi, con successo, affidando però la compagna alla groppa del suo rivale sconosciuto.
Sentire le cosce di Deianira stringergli il dorso scatenò in lui un galoppo senza limiti; subito suscitò nebbie su tutte e due le rive del fiume, nei boschi tutt’intorno, e la corsa fu senza tempo per sé e per la sua padrona, che si reggeva a una criniera di capelli, in parte guidandolo in parte trascinata senza freni.
Eracle, che era un grande, non esitò a cercarli, né faticò a trovarli. Una sola freccia fu sufficiente a raggiungere Nesso da molto lontano, e il Centauro capì la propria follia. La ferita arrivò da così distante che il veleno si attenuò in parte lasciando il tempo per un lungo discorso.
Spiegò a Deianira, mentendo con perfidia, che un piccolo vaso del suo proprio sangue sbiancato dalla morte – non parlò di veleno – andava conservato, e se usato per intingervi un indumento di Eracle, lo avrebbe fatto tornare sempre da lei, annullando qualsiasi prestigio di qualsiasi altra donna.
Nascondeva quel che aveva capito, e che lo stava uccidendo: la freccia era intrisa con l’inestinguibile sangue dell’Hydra.
Sembrò un incidente di viaggio, non raro, e finito bene.
Di nuovo Deianira ebbe qualche difficoltà a orientarsi, a ordinare gli eventi. Le apparve che ad ogni villaggio incontrato ci fosse una Iole in agguato, e forse c’era, e per certo la vedeva.
Più a lungo lei la guardava che non lo stesso Eracle; se ne incantava più ancora che ammirarla; ma alla fine, per essere convinta degli sguardi di lui e anche dei propri, decise che era il momento di mettere alla prova il dono di Nesso.
Stanco del viaggio, dopo una notte poco soddisfacente, sembrò a Deianira che il suo compagno dovesse rivestirsi e acquietarsi. La camicia preparata dalle sue mani rivestì il corpo nodoso di Eracle, che rinvigorito si alzò e si diresse alla cima di una boscosa collina per incontrare il sole nascente. L’incontro col calore e con la luce accese il suo corpo e lo consumò. 
Deianira lo capì vedendo i buchi che si erano formati su altre stoffe, esposte al calore del fuoco e casualmente toccate da quel sangue bianco: solo in quel momento le si schiarì l’inganno.
Non attese che l’incendio scendesse dalla collina verso l’accampamento, come già stava avvenendo; si uccise sul proprio letto, entrando lentamente in una nuova nebbia.
Tutti fuggivano e nessuno poté aiutarla; né Deianira avrebbe voluto. Non sapeva dove andava, ma certamente non chiedeva di essere ritrovata, né volutamente, né per destino o per caso.
Ricordare sarebbe stato di una grande fatica, e anche dimenticare.


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