TESEO, IN VERITA'
di Bruno Pompili
Maestro dei cassoni campana, Teseo e il minotauro, 1510-15 ca
Acropoli di Corinto, caverna 8, dei documenti.
Non volevo tenerlo nascosto, e solo per breve tempo – lo so – avrei rispettato il segreto. In un qualche momento o circostanza avrei raccontato la verità.
Che era contro me stesso.
Invece. L’ossessione dei curiosi, la pressione del potere che avevo conquistato, la vicinanza di Fedra, e prima di lei Arianna, anche, spesso fastidiose, e poi una mia resistenza alla fama, ora dicono notorietà: tutto questo, a lungo, mi ha tenuto in silenzio.
Io avevo allora dei progetti – come dire: eroici – e dovevo misurare verità e elusione. Possibilità di dire e non dire: meglio la seconda.
Col tempo è stato sempre più difficile ritornarci sopra, e ora, ormai, che sono scomparsi in gran parte tutti, quasi tutti: ci penso.
Insomma che senso ha la reticenza – e per altro verso: perché dirlo – nell’inutilità dilagante di ogni memoria, e con le mie parole desuete.
Dovrei sognare che un giorno, fra tanto tempo, e in luoghi estranei, la mia storia – che incrocia quella di Minos, Principe di Knossòs – abbia un senso come oggi ancora ce l’ha per me. Eppure, sempre di meno. Gradatamente.
Più che altro mi hanno infastidito a lungo, direi per sempre, le false storie usate per convincere genti e popoli, entrambi estranei e vittime della falsità. Avevo interesse, e pessimismo insieme, sulla mia eventuale narrazione, o diciamo pure: incredibile testimonianza.
Non so neppure perché adesso mi vada di esporla… se non perché il tempo che è passato ha sfumato i contorni di ogni volto e di ogni sequenza. Avviene forse che sempre sia così? Ai vecchi forse?
È questo il punto in cui vorrei – come è diventato poi comune fare – porre una premessa, che serva a capire non solo circostanze, sempre marginali, ma lo sviluppo e le cause dei fatti. Dovrei dire “eventi”, ma non voglio farmi vedere attraverso l’importanza che si dà a pochi frammenti o episodi.
La morte di mio padre, a causa della mia stupida disattenzione, mi ha segnato, anche se non ne ho tratto la lezione che avrei dovuto tenere presente per sempre. Quella storia delle vele nere – notizia ferale, invece delle vele bianche – non la dirò più, tanto è diventata famosa, a mia vergogna: in realtà mai sottolineata a sufficienza.
C’erano due filoni di notizie: la mia missione a Knossòs e la situazione che vi trovai.
Da molto tempo, per un debito antico o per torti non pareggiati, una decina di giovani donne scelte per educazione e per bellezza venivano inviate ogni anno dalla mia Città a Knossòs, nell’Isola di Creta.
Noi sapevamo che sarebbero scomparse, ma a loro questo non veniva detto. E neppure a noi era dato sapere il loro destino, eccetto una leggenda alla quale nessuno credeva ma che alcuni ripetevano. A sufficienza.
Fra pochi, in modo del tutto isolato, si diceva che c’erano stati dei problemi di fertilità nelle donne isolane, e si sottolineava “non nei loro uomini”.
Quel segreto doveva essere complicato da gestire, e fu accompagnato da una storia di mostruosità (che allora significava “cosa straordinaria”) nascosta in un palazzo sotterraneo, contorto e incomprensibile, “un labirinto” dissero anche a me. Era un intreccio di oscuri corridoi e caverne che presero il nome proprio dal loro architetto, un genio unico in quel tempo: Dedalo.
Mi dissero che la mia Città mi aveva scelto, che era un onore personale, che la mia forza e la mia fama contavano molto; dovevo dunque andare a Knossòs, accompagnare una decina di nostre ragazze in una qualche missione, molto confusa; e sembrava proprio senza ritorno. In più, detto a mezze parole, dovevo affrontare il principe Minos, dentro il suo Labirinto dal quale non usciva mai, né poteva. Forse ucciderlo, per evitare di dover mantenere il sacrificio delle nostre ragazze.
Una storia sicuramente scivolosa a cui cercai di dare un senso quando arrivai.
Le ragazze erano sparite subito appena sbarcate: pare che così fosse sempre, ma molto mi era stato tenuto nascosto o vago. In tal modo sempre avveniva, e cominciavo a volermi rifiutare. Fra le dieci ragazze c’era Armiria, che avevo vista da lontano qualche volta, prima dell’imbarco. Non era capitato di parlarle, ma lei mi aveva colpito per l’eleganza dei movimenti, la consapevolezza dello sguardo, le poche parole che scambiava intorno a sé, l’altezza corporea che la faceva svettare fra gli uomini. Avrei voluto dirle qualcosa, ma gli impegni da svolgere e l’ossessione degli appuntamenti, oltre ad una strana, stranissima, idea che poi ci saremmo visti in qualche occasione semplice e inevitabile… nulla di questo è avvenuto, e anche durante il viaggio c’era stato un astratto quanto reale divieto a comunicare, con chiunque. Mi sono chiesto allora, e da allora ho cominciato a cambiare, come funzionasse il nostro mondo, fra segreti, elusioni, false indicazioni, sorprese continue di cui non tener conto. Così Armiria si disperse in una nebbia di eventi chiari e incomprensibili.
Dopo tanti anni mi sveglio con la sua immagine concreta davanti a me; la vedo solo un poco rimpicciolita.
Io e un amico fidato, Doratos, che mi accompagnava, in parte coinvolto nella missione, fummo ricevuti con onori molto formali, con dettagli che mi sembrarono insulsi allora come adesso che ci ripenso.
Il mattino dopo fummo avvicinati al risveglio da Fedra e Arianna, ragazze mature e loquaci, sicuramente viziate dalle abitudini del palazzo regale, abili nell’intrattenerci e accompagnarci da qualche parte come ordinato dal padre, re Minosse: visto un momento, e col desiderio di non più rivederlo.
Doratos mi sembrò in qualche confidenza di parole e gesti con Fedra, forse troppa, e lei la accentuava da vicino.
Alla fine della giornata il Re mi fece avere un messaggio: il giorno seguente sarei entrato nel Labirinto, potevo portare Doratos con me, perché lo scontro sarebbe stato violento e mortale, come avvenuto per altri in questi ultimi anni.
Sì, questa cosa, questa eventualità, era stata sempre nell’aria fin dal primo giorno di navigazione. C’era una sensazione di dubbio ritorno dovuta per di più alla insolita richiesta di mio padre di vele bianche o vele nere come segno, fin dall’orizzonte, del successo o no della spedizione.
C’era anche lo sguardo di Armiria, che mi cercava e subito si volgeva altrove come rifiutando un filamento insensato. Riuscii a sapere che era figlia non riconosciuta di un personaggio importante di una città amica e di una interprete scaltra di segni del destino.
C’era forse stato nella mia curiosità come un involontario modo per allontanarla. Allora mi fu anche chiaro perché mi avessero detto (sembrava una stupida frase) di non guardarla troppo, e poi di non guardarla per niente. Una di quelle donne che non vanno mai avvicinate.
Armiria si imponeva anche quando si nascondeva, forse pensando per istinto a un sotterfugio o a un’occasione per allontanarsi da noi; quando poi orientava a te i suoi occhi, e li incrociavi, il mondo era per un istante diverso, ampio, e subito si spegneva.
C’era verso sera, per tutta la durata del viaggio, una lunga fase di luci convulse attorno a noi, che non avevano un orientamento di favore o di contrasto. Armiria in quelle ore si copriva il capo; una sola volta ci vedemmo da vicino e mi sembrò chiaro che lei comandava riflessi e baluginii. Volevo parlarle e avevo paura: inutile preoccupazione perché lei già era volta altrove, con un nero velo di brume sulle spalle.
Doratos, d’improvviso accanto a me, mi disse che mi stavo sporgendo troppo dal parapetto, e che dovrei stare più guardingo. Soprattutto in un momento in cui tutti si sono accucciati per la notte.
Di quel viaggio non ricordo altro; anche quando l’ho raccontato, in qualche pur rara occasione, non mi tornava in mente altro dettaglio, altro momento. Sempre e soltanto l’impressione senza parole né rumore alcuno delle tempeste brucianti negli occhi di Armiria.
Era dunque stabilito da qualcuno (Doratos era convinto che non dipendesse neppure dal Re Minosse) che il giorno successivo saremmo entrati nel Labirinto. E lui sembrava curioso, e con una specie di lieve allegria: oggi posso dire del tutto insensata.
Arianna con discrezione affidò la mia salvezza, secondo fantasia, ad un gomitolo di filo da lei stessa attorcigliato, perché non perdessi l’orientamento nelle buie gallerie del sotterraneo: ci teneva che io tornassi, e lo disse in modo convincente.
Vedevo poco allora: era così diverso l’istantaneo, l’immagine e la parola; e io così alterato poi, con tutte le scelte che non mi aspettavo di fare. Dopo ho capito che gli errori sono evitabili: intanto ci sono stati morti nel mezzo.
L’incontro con Minos, lento e molto guardingo; un qualche cenno del capo, appena mosso dietro gli occhi fissi, tranquillizzò tutti e tre.
Dedalo aveva vissuto a lungo dentro la propria opera e aveva insegnato a lui pensieri, arti, comprensione dei meccanismi della vita e del governare.
La mancanza della luce naturale, per anni, lo penalizzava; avevano però architettato delle vie di uscita e l’esterno non era del tutto sconosciuto. Comunque vedeva molto meglio di noi, per abitudine, e però gli dovevamo un vantaggio: per la nostra doppia presenza e per l’addestramento.
Il Principe Minos aveva frequentato, solitario o con Dedalo, qualche spazio esterno isolato, con abilità a nascondersi; c’era stato qualche caso tuttavia, narrato, confidato, di un essere mascherato che aveva affascinato delle ragazze; queste in realtà lo ignoravano. Ma c’erano state anche delle imitazioni, dei simulatori improvvisati, e delle cacce rumorose; così, loro non uscirono più. Per diverso tempo.
Aveva imparato molto, e contava di andarsene una volta o l’altra; ma prima se ne andò Dedalo, con un accordo e un abbraccio. Infatti lui non era obbligato a restare per sempre, e nell’incertezza dei poteri avevano deciso da soli.
All’origine del tutto c’era stato un grave malinteso regale, nel Palazzo: il frutto di un amore sconsiderato andava annullato o per certo nascosto. L’architetto Dedalo, generoso, aveva difeso la regina e ne ricevette una punizione: lunga prigionia nel Labirinto che lui stesso aveva ideato e costruito per il Principe che non doveva esserci.
Minos ci confidò di non saper nulla delle ragazze che arrivavano una volta all’anno da lontano. Sì, parole erano giunte alle loro orecchie e Dedalo le aveva definite astuzie primitive e indegne, se non tipiche di un regno che sarebbe finito molto rapidamente.
Tre giorni ci parlammo, senza dormire; forse un solo giorno.
Minos sapeva riconoscere menzogne e scivolamenti dello sguardo e della voce: così ci intendemmo.
Cercavo notizie concrete e trovai una leggenda. Il quadro dei poteri era definito, con vittime ed eroi, punizioni e tormenti.
A noi restava il nodo del risultato. Fuori aspettavano.
La soluzione fu istantanea. Il suo balzo e il suo colpo fulminarono Doratos senza che io potessi neppure pensare.
«È inevitabile che ci debba essere un corpo. Evitiamo però il dolore.» Così parlò il Principe Minos.
Amavo Doratos, e il dolore mi accompagnò a lungo.
Insieme portammo il suo corpo verso l’ingresso, lo travestimmo con cenci e una grande spaventosa maschera taurina. Come se lo aspettavano tutti. Con molte ferite, ormai rosate, lo trasformammo in un somigliante.
Minos si allontanò per sempre da un pertugio oscuro che poteva portare persino al mare: era la strada di Dedalo.
Io uscii, davvero traballante, falso e insanguinato. Di Doratos accennai a Fedra suggerendo che doveva essersi sperduto nella lunga lotta, in zone molto buie con avanzi antichi di altri corpi; ad Arianna sorrisi che il suo spago non era servito quasi a niente.
Non mi fu chiesto da nessuno di incontrare Minosse, che così si perdeva la fornitura annuale di ragazze: avevo dunque compiuto la mia missione, ora tanto chiara, e potevo tornare a casa.
Arianna voleva ad ogni costo seguirmi, perché contava da tempo di lasciare il padre, e mi trovai ad accettarla; però la lasciai all’isola di Naxos, preparandomi da subito anche alla sua vendetta. Non capivo che la punizione vera sarebbe stata legarmi con sua sorella.
Un punto nero che non ho mai chiarito e sempre mi inchioda il cervello è perché mai abbia visto nel Labirinto, in un corridoio laterale, di cui Minos mi sbarrava il passo e la vista, un abito nero e variegante nel buio, che era quello di Armiria.
Vivente, non poteva nascondersi a lungo, l’avrei trovata. Non c’era.
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