APOCRIFI MARZIANI OVVERO LA SOGLIA DI TEUTOBURGO
C. Velleius Paterculus Cum Selectis Variorum Notis, Leida, F. Hackius, 1659
Anch’io, come altri, tenterò di esporre in un volume adeguato i dettagli di questa spaventosa disgrazia, di cui nessun’altra fu più grave nelle campagne estere, dopo quella subita da Crasso contro i Parti: per ora non posso che deplorarla nel suo insieme. Il più forte di tutti gli eserciti, il primo per addestramento, forza, esperienza, fu sorpreso a causa della mollezza del capo, della perfidia del nemico, della ingiustizia della fortuna, senza neppure avere la possibilità di combattere né di compiere una sortita, se non in condizioni sfavorevoli, non come i soldati avrebbero voluto – alcuni anzi furono duramente puniti perché usarono da Romani le armi e il coraggio. Furono intrappolati tra boschi, paludi e agguati e uccisi fino all’ultimo uomo da un nemico che avevano sempre massacrato come bestie, al punto che la vita e la morte di quelli dipendeva soltanto dalla loro collera o dalla loro clemenza. Il comandante ebbe più coraggio nel morire che nel combattere: si trafisse seguendo l’esempio del padre e dell’avo. Dei due prefetti del campo, tanto luminoso fu l’esempio dato da Lucio Eggio quanto infame quello di Ceionio che, quando la schiera aveva già perso la maggior parte dei suoi effettivi, si fece promotore della resa e preferì morire sul patibolo che sul campo di battaglia. Vala Numonio, legato di Varo, uomo in genere onesto e tranquillo, fu responsabile di un pessimo esempio, abbandonando i suoi cavalieri senza cavalli a combattere a piedi e gettandosi con gli altri in fuga verso il Reno. Ma la fortuna si vendicò di questa sua azione: non sopravvisse a quelli che aveva abbandonato, e cadde da disertore. La ferocia nemica aveva sbranato il corpo mezzo bruciato di Varo; la testa fu tagliata e portata a Maroboduo, che la mandò all’imperatore, in modo che finalmente ebbe l’onore della sepoltura nella tomba di famiglia.
(Velleio Patercolo, Ad M. Vinicium libri duo, II, 119)
Tutto ebbe inizio poco dopo che ebbi notizia dell’affascinante progetto di un libro dal tema tanto intrigante quanto sconfinato: Marte, il Pianeta Rosso, il rutilante dio della Guerra e mille altri aspetti! A trattare l’argomento sarebbe stata un’Autrice mia cara amica, brillante e geniale.
Ma vado subito al punto. Giudichi chi leggerà. Fu la mia squilibrata deriva immaginativa? Oppure sto per dar conto di… non meno spericolate sincronicità?
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Il 6 agosto 2012 il Mars Science Laboratory della NASA dà ufficialmente inizio alla sua attività di esplorazione e analisi del suolo del quarto pianeta del sistema solare. Il rover, dal così bel nome Curiosity, prende a trasmettere immagini e dati alla Terra, a scattare ininterrottamente foto della superficie marziana. Serie ripetitive di rocce, distese desertiche, sedimentazioni e stratificazioni: noiose forse anche per il più puntiglioso degli esogeologi.
Fin qui nulla di strano. È trascorso un bel po’ da quel 1877 in cui Schiaparelli osservò canali e arcipelaghi sul Pianeta Rosso, e ormai da lassù non ci aspettiamo altro che lande livide e brulle, aridità desolanti.
Tuttavia… Marte. Marte! Come al risveglio da un sogno mirabolante ci resta pur sempre una lieve tristezza, un senso di disillusione.
Credo sia per questo che, giusto l’estate passata, vidi ciò che vidi. O che volli vedere.
Sul web. Una fotografia dal Curiosity in perlustrazione dal cratere Gale, nei pressi del Monte Sharp. Un’area la cui composizione argillosa spinge gli scienziati a ipotizzare la presenza, in ere remote, di fiumi d’acqua e di numerosi laghi. Una sola istantanea in mezzo a centinaia d’altre, un unico colpo d’occhio.
Non ricordo se fosse il sito istituzionale della missione marziana, non è importante. Bloccai lo scivolare della gallery su quell’immagine precisa, già frugando e insistendo con le pupille. Infine trovai.
L’“anomalia” era in alto a sinistra sul video. Gioco d’ombre, apparenza, miraggio – certamente. Però era… una vertigine. Più li osservavo, più in fondo desideravo che quei tratti scabri, graffiati sul bordo della scarpata marziana – cicatrici di polvere solcate in milioni di anni – fossero davvero l’oggetto che stavo guardando. Che riconoscevo. Il relitto dell’elsa d’una spada conficcata nel suolo con tutta la lama, fino al breve segmento orizzontale della guardia. Persino la rotondità del pomello, il punto più alto ed esterno, mi sembrava nitido e inconfondibile, e vi leggevo addirittura un disegno, un simbolo inciso.
No, era assurdo – ridevo dentro me stesso. E chissà, quasi per gioco, già ingrandivo i dettagli sopra lo schermo.
Le sfumature di grigio e di ruggine, i chiaroscuri, irrimediabilmente si confondevano. Ma non bastava a quel mio improbabile divertimento. E quel ghirigoro cesellato che girava tutt’attorno al “pomello” era ormai il profilo di un animale, sì. Di un rapace ad ali spiegate. Di un’aquila.
Non ha dubbi chi sogna a occhi aperti. O forse tutta la vita di un sognatore è dubbio incessante.
Sia come sia, abbandonai subito quel passatempo di abbagli e me ne dimenticai.
Sino ad oggi.
Oggi che l’ordine incomprensibile dell’Analogia – o può darsi del Caso – mi spinge altrove, mi trascina in luoghi e tempi altrettanto remoti, ora (ma forse non completamente) terrestri, a personaggi mai incontrati prima.
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Le foreste e gli acquitrini di Teutoburgo, la zona adesso di Kalkriese, nella Bassa Sassonia. Li si ricorda per aver ospitato il teatro di una delle più disastrose disfatte dell’esercito di Roma.
Sul campo di battaglia, obbedendo agli ordini di uno sprovveduto e ingannato Publio Quintilio Varo, tre intere legioni – la XVII, la XVIII e la XIX – vennero sgominate dal fronte unito delle tribù germaniche capeggiate da Arminio. Nello spazio di tre giorni i vari cherusci, bructeri, sigambri, usipeti, marsi, e i membri di altre etnie vessate dalla dominazione romana, cancellarono oltre 20.000 milites obbligandoli allo scontro nel fitto della selva e tra le paludi loro familiari.
Era l’anno 9 d.C. Un settembre di vento e tempesta. A riportare gli eventi – con toni e motivazioni diversi (ma il risultato non cambia) – lo stesso Tacito, Ovidio, Svetonio, lo scrittore in lingua greca Cassio Dione Cocceiano, il geografo Strabone, il poeta Floro.
E Gaio Velleio Patercolo.
Chi era costui?
Di sicuro un uomo legato al potere, di ottimi natali campani, Velleius Paterculus (19 a.C. ca-31 d.C. ca., contemporaneo quindi ai fatti di Teutoburgo) è fra gli accoliti di Cesare, e successivamente accompagna Tiberio in Germania (e di questo, a detta di vari storiografi, è un cortigiano). Nominato a diverse cariche, militari e politiche, rimane ignoto fino al 1515, quando l’umanista Beato Renano rinviene, contenuta in un antico codice nell’abbazia alsaziana di Murbach, la sua storia di Roma dalle origini al 30 d.C. L’anno seguente, nel 1516, un amanuense del Beatus Rhenanus stila una copia del Codice Murbacense, oggi custodita all’Università di Basilea. Ufficialmente non esistono altre fonti del testo, peraltro mutilo e lacunoso in più parti. Ciò che si dice un caso di codex unicus.
L’opera, intitolata al console cui la si dedica – Ad M. Vinicium libri duo – è in principio di taglio annalistico, poi sempre più ridondante, incline alla coloritura e all’artificio retorico. Si è parlato di pluralità di stili per la sua scrittura, e di recente la si è rivalutata; tuttavia di fatto non spicca nel ricco patrimonio della letteratura latina.
Insomma: verosimilmente non avrei mai avuto ragione di soffermarmi su Velleio Patercolo. Se – nuovo inciampo attraverso questa costellazione marziana – non mi fossi imbattuto in un altro testo. Un articolo, una breve comunicazione, su uno dei più autorevoli portali per la condivisione di studi scientifici: Academia.edu.
Non saprei dar nome alle mie emozioni mentre per la prima volta (con avidità?, o inquietudine?) divoravo Noticias sobre el Código Murbacensis II. ¿Un Veleyo Patérculo apócrifo?
Lo firmano Ruth Rorschach e Efraín Alemanno, Departamento de Filología Clásica y Románica dell’ateneo di Oviedo.
Senza profondersi nelle circostanze, i due latinisti annunciano la scoperta di un nuovo manoscritto che includerebbe i libri di Velleio Patercolo, e l’avvio della sua analisi filologica. Ma soprattutto segnalano la «discutibile attendibilità di alcuni brani, assenti nell’editio princeps dal Beato Renano». Pochi passi, paragrafi, corrispondenti a sezioni finora perdute dell’opera del I secolo.
Rorschach e Alemanno propongono una tesi apocrifa per le lacune del testo di Velleio Patercolo che il nuovo ritrovamento integrerebbe. Un falso, a dir loro, presumibilmente medievale, o forse anche più tardo: «Benché conservino e rispettino, in linea di massima, le strutture retoriche dell’Autore, i brani sinora ignoti appaiono infatti sbilanciati in eccesso, marcati da un tono quasi favolistico».
Ed ecco: d’improvviso sono stato di nuovo scaraventato indietro al massacro di Teutoburgo. All’oscurità dei boschi germanici disseminati dai cadaveri dei legionari di Publio Quintilio Varo. Perché i due studiosi di Oviedo, quasi frettolosi, si lanciano subito nell’esame di un passaggio che – oltre a attestare, secondo loro, «un’effettiva inautenticità stilistica» – non può lasciarmi indifferente. Una digressio (e già questo stride con la struttura del resto dell’opera) che i due filologi riportano nella traduzione spagnola; la traduco a mia volta:
(…) tre ausiliari, scampati fortuitamente alla furia belluina dei Germani, ridotti allo stremo sia dall’orrore sia dalla codardia che aveva fatto loro scegliere la fuga invece di una morte degna dell’onore dei loro commilitoni caduti. Non osavano volgersi indietro nella loro corsa affannosa, a precipizio fra i tronchi e i pantani, mentre al loro orecchio le urla ferine degli inseguitori sembravano sempre più prossime. (…) Così la fine appariva inevitabile, quando l’intrico selvoso e buio s’aprì in una radura e sopra le loro teste, nel cielo di piombo che non cessava il diluvio, riecheggiò uno stridio acutissimo. L’ultimo dei tre, fante figlio di un veterano trace, tale Volgeso o Geso, levò dunque lo sguardo alle nubi, e ciò che scorse fu quanto segue: una maestosa aquila che s’inclinava in picchiata verso gli alberi al limite della spianata, con tra gli artigli un giovane candido ariete. Senza abbandonare la preda, il rapace finì per volare più basso, per gettarsi e sparire all’interno di un varco fra la vegetazione all’estremo della radura, quasi una porta naturalmente creata dall’aggrovigliarsi dei rami che, tuttavia, per chissà qual prodigio, mostrava al suo centro come una nebbia, un vortice, una foschia luminosa la quale a tratti emetteva bagliori accecanti. I fuggitivi esitarono un attimo, ma subito Volgeso, oppure la disperazione di quello, convinse gli altri: avevano appena assistito al più numinoso dei segni; la sacra aquila di Roma, ghermendo l’ariete, animale sacro a Marte, dio della Guerra, indicava loro la via alla salvezza. (…) I tre si lanciano quindi nel turbine di nebbia e luce e adesso, portento inaudito, attorno ad essi la vegetazione, le grida degli uccisori, la pioggia, di colpo svaniscono. Ma non c’è tempo per osservare l’ignoto, non meno tetro scenario, che ora li circonda. Volgeso già soffoca, e sente le vene di sotto la pelle sul punto di esplodere, e gli occhi prossimi a fuoruscirgli da dentro le orbite, mentre il trio, quasi senza peso, scivola giù lungo una scarpata di polvere e sassi, buia e ferrosa tale e quale il cielo che tutto sovrasta, dilatandosi in lingue d’acciaio e fulmini abbacinanti sull’orizzonte di un nero e gelido deserto. Si dimena, il figlio del trace, tenta d’appigliarsi a una sporgenza: invano. Senz’aria, slitta via per il ciglione, sempre più vicino ai compagni già irriconoscibili, coi sembianti dilaniati, i cui corpi striano scie di carne e sangue nella nebulosità. Dev’essere l’Ade, il regno degli inferi e nessun altro luogo, il posto ove l’aquila è volata e li ha condotti. (…) Allora, annaspando gli ultimi respiri, il velo ghiacciato e vermiglio della morte che via via l’accecava, Volgeso pregò Marte Ultore, lo supplicò di non punirlo per la sua viltà, di sottrarlo alla tenebra estrema. E al nume, in cambio della sopravvivenza, promise in sacrificio i più ricchi suovetaurili, nei quali, in aggiunta alla scrofa, all’agnello e al toro, avrebbe sparso il sangue di un cavallo da guerra e immolato il più puro e il più grasso degli arieti. Insondabile è il volere degli dèi superni: d’un tratto un insperato vigore rianimò il braccio di Volgeso, ed egli impugnò il gladio, e l’arma usò a modo di gancio, spingendone la lama a fondo, sino all’elsa, più e più volte nel suolo, e con essa si trasse in alto, verso l’orlo del dirupo, indietro al gorgo di lampi e caligine varcato subito dopo l’aquila. (…) In tal maniera il superstite tramandò i fatti, e della sua narrazione io, Velleio Patercolo, ho reso testimonianza senza alcun giudizio personale, solo con lo stupore che mi impongono, avanti a detti avvenimenti, il dio della Vittoria e i suoi disegni impenetrabili.
***
Non commenterò. Per quanto possa contare, in me prevale su tutto l’altalena fra un senso di straniamento e una meraviglia che inquieta, di sapore che a volte mi pare onirico, a volte quasi si confonde in un caos farneticante. Quello della sfilza delle domande che mi perseguitano.
Aggiungo solamente questo: due fatti.
La stampa che feci della foto del Curiosity, infilata in chissà quale cassetto e mai più ritrovata. Le ore infinite, frustranti, a frugare di nuovo sul web per quell’ombra di spada.
L’articolo dei latinisti di Oviedo sul Código Murbacensis II e il Velleio Patercolo apocrifo, ritirato da Academia.edu poche settimane dopo la pubblicazione. (Ho scritto ad entrambi – chiedendo quale verità? –: sto ancora attendendo risposta).
Perdoni l’Autrice del libro che forse un giorno avrete tra le mani, il lettore – Marte stesso (il dio della Battaglia dagli insondabili schemi, il pianeta ferroso di fiumi e laghi di polvere).
Se è stata arroganza la mia.
Quella di far esistere, magari solo per poche righe, la «Soglia di Teutoburgo».
Meraviglioso. Un minuziosissimo lavoro di cesello e bulino, questa è l'impagabile maestria di Valente nel maneggiare trame realisticamente fantastiche. MLP
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