MARSIA, O DELL' ARIDO SUONO
di Bruno Pompili
Johann Carl Loth, Apollo e Marsia (1684-85)
Marsýas (Marsia per i Latini) e Apollo si misurarono in una gara d’arte musicale. Secondo gli accordi il vincitore avrebbe deciso una punizione per il perdente. Le Muse preferirono Apollo, il solo re Mida (ospite della competizione) sostenne Marsia, e per questo fu a sua volta punito, secondo la consuetudine degli alti poteri.
Marsia venne scorticato vivo, appeso ad un albero, come testimoniano tradizioni orali, scritte e pittoriche e plastiche attraverso i tempi: si aggiunga questa testimonianza, non tardiva, ovvero una memoria che permane. È stata raccolta e trascritta presso gli ospitali centauri, sul monte Pelio.
I suoni molto si disperdono, ma un orecchio attento sempre accoglie una sussurrata eco con curiosità.
Che io fossi un fauno non è del tutto vero. Anche satiro echeggia male. Insomma, fauno. O sileno, a dirlo qui; questa precisione conta poco, o sempre meno, sì. Anzi suona peggio.
Ancora mi vedo che parlo con difficoltà; sono impreciso.
Ma insomma né un semplice fauno, né uno importante. Suonavo e mi ascoltavano, senza strepiti né c’erano prezzolati a supporto, come avveniva per altri, e quasi sempre. Arrivavano naturalmente influssi superiori, dei condizionamenti, e anche il Divino (già così si parlava di Apollo) ne godeva: di favore, di immagine, di provenienza o di origine; presso gli umani si diceva forse già “lignaggio”, invece da sempre giungono per me o similari le esclusioni, con gli insulti collegati: bestia, brutta razza, sporchi fauni, bastardo.
Allora: bastardo ci sta, senza vergogna. Ho avuto il privilegio di non essere legato a una razza; anche se devo dire che questa posizione ha i suoi costi in angosce, divieti, sorrisetti di scherno. E qualche schiaffone, veramente pesante. Io, per me, ci ho rimesso la pelle, letteralmente.
A volte mi viene da affermare che non era vero per niente, quella storia della gara artistica o dell’offesa alla consuetudine del rispetto, o non tutto lo era; ma i documenti utili sono sperduti, e in realtà non servirebbero a nulla perché tanto superati, annullati da quelli della mia condanna ed esecuzione: uno scuoiamento, sul vivo, mica chiacchiere.
L’immagine sconfigge sovente la storia vera, o almeno modifica la biografia.
Se serve, non sono contrario a dirne qualcosa, a raccontare dal di dentro, della pelle, intraderma come dire. Non confidenze di un passante, ma di uno scuoiato, e come ci sono cascato.
Avevo carattere e caratteri. “Il fauno Marsia” ero per tutti, perché a guardar bene nessuno era interessato a chiarire meglio, soprattutto dopo quella storia col Divino. Lui ci calcò sopra, e io non potei replicare perché l’arto capripede chiaramente lo avevo, e si vedeva. Anche la zampa, che io chiamavo gamba, d’accordo, era una zampa, vistosamente pelosa. Ma il resto, quello che per me contava, non aveva nulla da invidiare al Divino: beh sì, lui era bello, io no, per niente. Ma anch’io suonavo, e questo era il problema, insomma il nostro contrasto. Suonavo il flauto, le canne raccolte in natura, selvatiche, umane forse; io non sfioravo l’aurea cetra.
Lui, Apollo, truccò la questione, la mise tutta sull’arte (ho sentito che si può usare “la buttò su…”, tanto per dire). Anch’io ci pensavo, ma c’erano divergenze proprio sui caratteri, gli scopi, le tecniche, e anche gli alfabeti, oltre che sui sistemi strumentali.
E siccome, a differenza dei grandi portatori di successi, io Marsia, e tanti altri senza invidia e senza inganno, vediamo bene le differenze, e lo diciamo: sì, lui, il Divino, suonò da dio. Io quel giorno potevo far meglio, ma non andai male.
Si poteva essere non dico felici insieme, ma soddisfatti entrambi.
No. Lui se la prese a male perché io ci avevo pensato, a batterlo, ci avevo provato. Il privilegio degli importanti è che hanno ragione subito e anche, e soprattutto, dopo. Le differenze si allargano, i contorni si confondono, si sfumano i ricordi eccetto i tratti del vincitore, con quelle ombre scintillanti tutt’intorno ai margini.
Col tempo passò il bruciore, molto tempo, trapassante. Ritornarono i peli quasi ovunque, eccetto qualche chiazza su ferite più profonde. Ho zoppicato per mesi, a causa delle contrazioni che mi avevano strizzato i nervi. Il cervello, a posto, ma i ricordi no.
E poi Lui, un giorno, venne a farmi un discorso. Non avevo ancora la forza per guardarlo in faccia, ma la mia testa si fissò marmorea davanti alla sua luce ingrigita.
Prima di tutto mi decadde dalla stima, che gli dovevo giustamente, quando mi riferì, come per scusarsi, e non era obbligato, che il tutto era dipeso da quella sciocca donna che stava dentro Athinà (la Pallade), con quei suoi cupi tempi di depressione: una accecante tristezza condividere lo stesso palazzo (come da testimonianze). Insomma, pochi lo avevano saputo: è capitato che Lei avesse provato il flauto, lo strumento delle nostre feste e dei nostri canti; e per nascondere che le erano piaciuti troppo, disse che vedersi nello specchio delle acque silvestri, o delle superfici palustre, con le gote rigonfie, era una visione orrida. Capite. Adesso fate attenzione. Non si piaceva a vedersi che soffiava nelle canne della mia flautiera. Ho odiato più lei che non il Divino: insomma, alla pari.
Un silenzio, una pausa; perché poi venne il discorso più serio quando Lui disse che «era stato giusto il giudizio (e forse no) ma non giusta la punizione». Cercava di patteggiare un rimedio, impossibile, o almeno un riconoscimento: qualcosa come denominare formalmente, a stima e ricordo, un fiume, o dei torrenti in tutta la Frigia, con suoni di non arida eco che mi richiamassero alla memoria dei passanti, o echeggiassero lontano, ma non sapeva dire quanto.
Mi importò di più, per quanto inutile al momento, molto più in seguito, che il mio strumento e la sua propria musica fossero attribuite a Dioniso o adottate, sempre da Dioniso.
No, non ci salutammo con amicizia, ma capimmo tutti che ci poteva stare. Il dolore era stato prima, l’umiliazione e tutto il trucco. Noi (io e altri, intendo) si partiva dalle porte della Frigia, la strada era lunga e possibile.
A volte mi capita, ancor oggi, di nascondermi, fra i cespugli lungo i torrenti, perché ci sono sempre dei brutti segni sul mio corpo che ancora rivendica la pelle delle origini. Altri mi preferiscono così, e a me sta bene. Nessuno è più quello di una volta. Né io, né lui. E la Pallade, chi la pensa mai. Ti devi proprio sforzare.
E Marsia è un grande, direi quasi il migliore.
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