Da Siviglia a Parma, il ritorno del Barbiere più famoso del mondo
di Ornella Altavilla
Il 9 Marzo si conclude il ciclo di recite de Il Barbiere di Siviglia ospitato dal Teatro Regio di Parma in occasione della stagione operistica 2024/2025. Il secondo titolo in cartellone era già stato rappresentato, con lo stesso allestimento del regista Pier Luigi Pizzi, appena un anno fa, riscuotendo un consenso tale da convincere produzione e direzione artistica a riproporre il capolavoro rossiniano. Una scelta coraggiosa, come tutte quelle che da sempre e, soprattutto in questi ultimi anni, qualsiasi direzione è chiamata ad affrontare e che, tuttavia, considerata la risposta del pubblico, si è rivelata favorevole.
L’opera buffa del giovane Rossini ha attraversato i secoli, affrontato critiche fin dal suo esordio per poi abbracciare successi indiscussi; pochi i momenti di oblio in questo lungo viaggio fino alla maestosa operazione della Rossini renaissance e alla redazione dell’edizione critica di Alberto Zedda.
Tuttavia, proporre il colosso del repertorio rossiniano nel tempio verdiano, a un pubblico che da sempre ha partecipato da protagonista alla divisione fra verdiani e rossiniani, non è sfida semplice. La regia di Pier Luigi Pizzi và letta in questo contesto e alla luce di una nuova epoca registica in cui, per il teatro d’Opera, tutto è ammesso e possibile. Il regista milanese, ricostruisce un Barbiere drammaturgicamente, e quindi musicalmente, il più possibile vicino a sé stesso lasciando inalterato il testo e non eliminando nessun recitativo.
Per garantire maggiore autenticità al pensiero compositivo dell’artista pesarese, Pizzi pensa a una scenografia cromaticamente essenziale: le strutture architettoniche ci sono e sono anche praticabili, ma restano semplicemente bianche.
Gli spazi prendono forma e vita grazie ai dialoghi dei personaggi e i loro sguardi costruiscono la scena grazie al sapiente lavoro del Light Designer.
In questo pensiero di immobilità si inserisce anche la scelta dei costumi: Rosina indossa lo stesso abito per tutta la rappresentazione, uguale nel modello ma diverso nel colore che cambia di tanto in tanto, come a delimitare il perimetro dell’azione drammatica.
L’ orchestra di George Petrou ha restituito la tinta rossiniana nelle sue arie più famose, nei crescendo e nella vocalità dei cantanti in cui l’agilità non è mai solo virtuosismo ma è funzionale alla drammaturgia; fra i cantanti, ottimi attori e interpreti, un Figaro al suo esordio, Matteo Mancini, con tutte le carte in regola per diventare un personaggio rossiniano e un granitico Carlo Lepore la cui bontà artistica ha incarnato perfettamente il profilo del basso buffo.
La Siviglia di Pizzi si tinge di contemporaneità durante i concertati in cui i personaggi cantano, mimando, balletti tratti dalle emote di Fortnite: una soluzione che, senza stravolgere l’ispirazione dell’artista, ne garantisce, con discrezione, l’inossidabile attualità.
Non mancano sguardi ammiccanti alla platea parmigiana come la erre marcatamente rotante di Don Bartolo che disegna un sorriso generale fra pachi e platea o le fette di salame accompagnate da calici (di malvasia?) servite durante il banchetto, in omaggio al fedele e affezionato pubblico, estimatore sì di Verdi, ma innamorato del grande teatro d’Opera.
Una menzione particolare per il libretto di sala, biglietto da visita di ogni teatro e strumento prezioso per il pubblico appassionato. L’edizione curata da Giuseppe Martini si conferma un contenitore di scritti di qualità che arricchisce la proposta del Teatro nel suo aspetto divulgativo, sempre più urgente e necessario.
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