ARMIRIA, O DELLA GRAVE BELLEZZA
Lita Cabellut, Dawn (2022)
Non troverete mai il mio nome né su pietra di templi o di tombe né su stipiti di duro legno o archi di case illustri o dimesse né su pergamene caprine o tessiture colorate né grigie né confuse o ammonticchiate nei ricordi, perché non sono stata amata ma solo molto ammirata.
Gli dei e gli eroi mi volevano, ma c’era un ostacolo invisibile opposto dalla mia ritrosia esigente come un duro no del destino. Io ero diversa dalla mia bellezza perché questa diveniva subito una immagine quando venivo guardata ed ero rapidamente una che non c’è. Come una apparizione: così ho sentito dire di me.
Non c’è il mio nome in nessun libro di storie arcaiche e sarei sorpresa che qualcuno m’abbia mai visto in pagine girate con costanza dal vento che nulla alla fine mai nasconde.
Ero seduta sulla riva del mare, quel mare, quello da cui era emersa con sconvolte e insieme quiete onde di tenera tempesta la travolgente luce dell’impronunciabile Afrodite. Sì, a lungo ne fu vietato il nome la luce e il ricordo nel terrore di una gioia negata.
Quando si sparse la imponderata notizia, il mondo si fermò e poi non fu più a se stesso simile: c’era stato allora un pur felice ambiguo e dissolto spavento per timore del tempo che uccide o nasconde o dimentica.
Io ero là, io c’ero, e non avrei dovuto esserci. Di fatto presi una parte di bellezza che non mi era destinata, non toccava a me ma mi ero trovata presente e in quel momento ciò bastava per dar luce a tutto, seppur casuale.
C’era, come mi accorsi, una pena, una punizione anche per la mia esitante indiscrezione: non esser vista, per il mio proprio non voler essere vista.
Non era nella mia volontà ma non dovevo testimoniare, con i pur semplici riflessi della nascita, quale fosse l’inesaurito splendore dell’istante. Io c’ero e dunque non sarei stata amata e invece ammirata. Ero una eco impropria e vera, una immagine abusiva, di fatto un inganno scoperto subito, prima che si compisse.
Posso almeno dire, e lo dico, e non sarò creduta, che quando Afrodite uscì con rapida lentezza nell’intervallo di due onde senza misura si fermò il tempo: la sua emersione raccoglieva la luce possibile e non la faceva più filtrare altrove. Era dunque la notte di una grande luce. Ne raccolsi tutti i frammenti che ricadevano a me d’intorno, credetti che mi appartenessero come dono dell’immaginabile e infatti me ne indossai dentro di me. Non li avrei mai perduti ma era anche chiaro che non potevo goderne. La pena dichiarata contro di me è che io stessa cancellavo quel che mostravo, alzavo paure e mi sottraevo mentendo sul destino. Lasciavo intendere che ero la negazione del visibile, una pura ombra nella notte, o intoccabile come un raggio di luce nel pieno del sole.
Mi restò il nome. Armiria, il sapore del sale, che sempre si vorrebbe e subito si spegne. Era come il mare dove mi trovavo quel giorno, non per mia volontà, ma non ho mai detto, no, non ho mai detto che avrei preferito meno bellezza e più nome e più memoria.
Mi sono accontentata dell’inizio di uno sguardo sorpreso, degli stessi dei e degli eroi, e subito negato. Quel frammento l’ho dilatato io, per me, forse una volta forse due, e mi è sembrato veloce come la vita.
Mi sono nascosta in tempo, lasciando i soli miei abiti nelle caverne del Labirinto, sepolta nella ingannevole memoria di un passante.
Quanto ero di una intoccabile bellezza.
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