ORFEO PENTITO

di Bruno Pompili


Odilon Redon, Orpheus, c. 1903-1910



Tornato dall’Ade, dove ha lasciato Euridice, Orfeo trova che di nuovo il mondo è vuoto, senza di lei.

La saggezza calcolata dei bottegai e quella irridente dei bevitori nelle bettole della Tracia tendevano a dire «tanto peggio per lui».

Un artista questi pensieri li coglie nell’aria; ma Orfeo non aveva bisogno di tendere le narici, perché lui stesso già li formulava.

Si ritirò, senza pensare a quanto tempo sarebbe durato un esilio volontario. Dopo un lungo silenzio, in grotte, valli, dirupi e giacigli d’animali, non sopportando più i suoni dentro di sé, provò a esporli. La sorpresa furono i rumori indistinti e rugginosi che riuscì a sentire fuori dal suo gozzo.

Si guardò intorno spaventato, e si rimise nel silenzio più totale.

Non misurò neanche gli anni, ma bevendo a un fiume, che gli fece da specchio, capì l’orrore della sua immagine. E la impossibilità di cantare, persino di parlare.

Ricominciò da piccoli suoni, come un bambino; articolò frammenti di parole, che non aveva dimenticate, ma non osò né un discorso né il canto.

Aveva capito che occorreva una pazienza protratta quanto il silenzio, per interromperlo senza essere ridicolo. Cominciò a esercitarsi in solitudine. Un giorno un grillo gli rispose, e poi un corvo, e un merlo imitatore: considerò che la strada era giusta benché aspra, e con in più il peso delle umiliazioni che non poteva dimenticare.

Un tempo senza misura sembrò necessario per ritrovare le sue armonie, e ancora di più il doppio per tornare libero, pur nel pentimento della sua solitudine. Piangeva e si pentiva, ma quel canto non tornava che muoveva le pietre e ammansiva le tigri. Ci provava e le pietre facevano radici, le tigri si sbranavano fra di loro.

Un secondo tempo senza misura sembrò dare qualche risultato, soprattutto perché aveva infine compreso che Euridice era contenta di tutto, aveva trovato una buona sistemazione con la comprensione generale, e l’Ade non era così male se sei amica dei principi delle tenebre.

Fu in quel momento che ricominciò a pensare alla luce, e il suo canto si rimodulò come prima.

Venivano in massa umani e animali e inanimati per commuoversi tutti insieme.

Riprese a viaggiare, attraversò la Tessaglia e la Tracia dove fu accolto senza sospetti né falsi ricordi. Stava fondando una nuova civiltà, ma non poteva essere felice.

Le Menadi, che lì vivevano di preferenza, pensarono di prendersi il nuovo Orfeo, così impegnato nelle passioni e non solo nelle parole e nei suoni.

Le aveva sempre trascurate quando era accecato dalla luce di Euridice: una nuova curiosità travolgeva divieti, ritrosie, ma ogni momento luminoso si polarizzava nella parvenza di quella che ancora ne serbava il nome.

Le Menadi, a differenza delle Amazzoni, delle Lestrigone, delle principesse elleniche e dell’oriente, erano vestite da capo a piedi di ricchi addobbi, arricchiti di minacciose quanto delicate pelli di animale, che mai venivano aperti per lasciar intravvedere i loro corpi; l’immaginazione li rendeva perfetti ed esaltanti.

Avevano una tale carica persuasiva, aleggiante tutt’intorno, che ogni altra allusione alla loro realtà intima diveniva del tutto superflua e anzi fuorviante, fastidiosa, insensata, ovvia. La pelle delle Menadi si copriva di un velo diffuso di profumo, se così si può dire, impercettibile all’olfatto, ma accolto dai corpi in prossimità; e solo più tardi dal corpo di ognuno risaliva alle narici.

Ogni loro presenza, individuale o di gruppo, era segnalata già a grande distanza, poi nei presenti e nei viandanti si manifestava prima di tutto con sommovimenti convulsi del corpo e con stravolgimenti della mente sovente stabili nel tempo.

Una nuvola invisibile sospendeva la ragione e accendeva piaceri assoluti nell’oblio. Le trasparenti Menadi erano cercate e non trovate; quella tensione avida straziava e s’acquetava in una conquista prossima alla inesistenza. Perdere il senno era la normalità per chi le sognava, e la morte per chi le vedeva.

Nella devozione a Bacco (per questo erano chiamate anche Baccanti) avevano appreso a diffondere il loro richiamo incontrollabile attraverso il vino, che serviva da pretesto per mostrare spiegazioni semplici e verosimili, truccando la realtà.

Erano l’essenza della femminilità, senza bisogno di altre sostanze o artifici; preferivano, per guida e consiglio di Dioniso, lasciar intendere che il vino o altri succhi naturali le ponevano ai vertici dei desideri e dei sogni. Perché dal vino ci si può svegliare ma non dall’accecamento che inducevano i loro occhi, la loro parola e i loro corpi.

In gruppo conclusero che Orfeo le trascurava ed era insensibile alla loro passione.

Insieme decisero che egli dovesse aderire ai principii di Dioniso-Bacco e vivere a lungo con loro, in quella Tracia che era anche il suo paese d’origine.

Orfeo però aveva ancora una corazza protettiva e una voglia diffusa di pentimento che non gli consentivano di respirare l’ebbrezza delle sue conterranee; passava indenne nelle loro selve, si bagnava nei loro ruscelli, voleva cose senza nome ma non erano quelle che loro intendevano.

Contravvenendo alla propria essenza le Baccanti si denudavano sul suo passaggio, si mostrarono in molte pose insolite, capaci di far cambiare idee a pietre, umani e tigri. Offrirono vino, cibi, spezie, che a lui servirono per i viaggi e non abbastanza perché si arrestasse alla loro valle.

Posero da ultimo falsi informatori a portargli alterate notizie di Euridice, capaci di distruggere un’intera comunità non una sola persona, ma i tristi messaggeri stessi, confusi, si misero a piangere davanti a Orfeo invocando il suo perdono.

Per la prima volta si sentirono inadeguate, quanto inconsistenti erano agli occhi di lui.

Forse non si accorsero le Menadi di averlo squartato, nel desiderio di convincerlo.

Solo quando si intese parlare di una testa vagante con le onde, e che cantava sulle rive dov’era condotta dalle correnti e dal destino, ebbero l’intuizione annebbiata che era stata opera loro.

Eppure nella calma dei boschi, in momenti assopiti, non si svegliavano con ricordi oscuri dopo sogni inquieti; pigre si lisciavano le braccia e le gambe profumate per natura, lucidavano i corpi aspettando la luna.

Di Orfeo non mostrarono mai di avere memoria, né di altro. Anche Dioniso molto se ne inquietò e le obbligò a ricordare, in momenti inattesi, in luoghi imprevisti, con un improvviso momento di luce abbagliante.

Allora tutti nel mondo provavano una insolita paura, si aspettavano il peggio, e chiedevano canti ai poeti, alla soglia della notte.


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