FIORA E L' ALFABETO DELLA SPIA


di Bruno Pompili


René Magritte, La belle Lurette (1965)


C’era di sicuro.

I messaggi arrivavano lontano, a nemici o intermediari prezzolati, a terzi che li commerciavano, anche quelli falsi che noi avevamo messi come esca. Funzionava, l’esca.

Sapevamo chi era. Un volto e un corpo dei notiziari tv di ogni sera, alle 11.

Abbiamo controllato tutto, dai conti bancari ai bidoni della spazzatura, sapevamo cosa mangiava e cosa espelleva. Qualcuno infatti – sembrava uno scherzo – riuscì a raccogliere delle sue feci.

Era lui. Non sapevamo come prenderlo. Potevamo fucilarlo, fargli insomma sparare in una banale anonima sera di pioggia, e al mattino lo avrebbe raccolto qualche carro. Era tempo di pestilenza, non si faceva molta attenzione a un corpo in più: non c’era molto tempo, per nessuno, e poteva anche toccare di colpo a uno di noi, senza sapere quando, e con un incerto perché.

Poi cominciarono i sospetti in eccesso, a motivazione intima, nel senso che ognuno aveva paura di essere sospettato. Di qualcosa.

Sono tutti percorsi noti e già molto narrati, solo cambiando stile o parole. La differenza è che lui c’era, la spia, sapevamo chi fosse (chi era), non lo potevamo prendere perché l’ordine era scoprire il meccanismo, e non qualche rotellina dei contorni marginali.

La decisione non sembrò per niente giusta; la maggior parte di noi non era d’accordo: se spia c’è, la prendi; poi cercherai più in alto, o più lontano, più in basso, più dove vuoi.

L’ultima astuzia del pensiero, dei più furbi, o del più furbo, che c’è sempre, uno solo, è che non sarebbe lui la vera spia: «È solo una controfigura!».

E allora si configurò l’idea più sottile e astuta fra tutte, che lui sì c’era, però la vera spia era la sua donna.

Facile a dirsi e anche sollecitante. Perché la sua donna era molto nota, era di una bellezza fuor del comune. E la domanda ricorrente, mai detta ad alta voce (per paura?), era che cosa ci trovasse lei in quello lì. Una come lei con uno come lui.

La risposta sempre pensata e mai neppure sussurrata, perché noi eravamo persone serie, riservate in qualche modo, a paragone d’altri: “le sue qualità di maschio”.

Al pensiero, a qualcuno è venuto da ridere: non sembrava così dotato.

Ma c’è sempre il più attivo tra tutti e il più abile a immaginare iniziative. Su sua proposta fu incaricata una disponibile, a pagamento, per fare valutazioni da esperta.

Ci volle più tempo del previsto, perché lui era uno riservato, che non si concedeva alle avventure improvvise, aveva esperienze e non credeva nei sentimenti. È però vero che nessuno resiste, o quasi nessuno, a tentazioni ben organizzate.

La nostra amica acquisita fu convincente, toccò la leva – in Trudstone (ecco, quello è il suo nome), lei Almiera Carola Vincenza (ci teneva a tutti e tre i nomi e ci giocava anche nell’intimità, con molto successo) – che doveva “esser fiero di aver suscitata tanta passione”. Proprio lui se l’era meritata. Una come lei.

Trudstone dunque non avvertì che non era importante, o era di poco senso, e anche di nessuna conseguenza, quel che lei diceva e che dava e quel che sentiva: niente in realtà. Aveva finalmente recepito con orgoglio, immaginato sì, di essere semplicemente cercato e desiderato.

Non era vero. Ma non lo sapeva.

Almiera Carola Vincenza compì la missione affidatale, riscosse il compenso, rilasciò la dovuta testimonianza che un po’ tutti desideravamo: «persona dolce, mentalmente dotata, sessualmente non tanto, ma nella normalità».

Noi lo vedemmo a lungo triste e malmesso in pubblico dopo che lei gli disse che non si poteva continuare così; ma resistette, forse perché i ricordi erano forti e lo compensavano nel sopportare la distanza e il fallimento.

Lo scopo era stato raggiunto. La donna di Trudstone, sotto indagine, non gli era dunque legata per ragioni di erotismo meccanico, o a ciò prossimo.

Fiora, peccato per il nome, ma quello era. Fiora stava con lui per qualche ragione più o meno logica, come sempre, forse anche perché lei era la spia e lui il paravento.

E allora le poteva capitare di essere circuita, avvicinata, molestata, incuriosita, alla fine identificata, scoperta, o niente di tutto questo; o appariva soltanto nel tentativo di una verifica che andasse a segno. Sempre tuttavia sommovendo qua e là sentimenti che poi diventano pesanti, quando crollano.

Così doveva succedere. Il nostro amico Trissel (è un nome finto e fasullo, a cui teneva però molto e non sapevamo perché) si prese l’impegno di corteggiarla: così ancora diciamo fra di noi, per capirci.

Fiora era imprendibile, e poi quando ormai per un eccesso di noia (e per non creare problemi: una minaccia molto complicata e disdicevole però c’era stata) accettò di conversare e di prendere qualcosa da mangiare in un posto riservato quanto mitico, si rivelò lentamente (dico giorni) in parte scialba e di un gelo insondabile.

Quando Trissel, fingendo o sbagliando confidenza, un poco se ne lamentò – stava insomma cadendo nel suo stesso tranello perché Fiora, bella era bella veramente – confuso rivelò l’avvenuto.

Gli aveva detto a bruciapelo: «Ma cosa credi, di potermi eccitare con così poco. Se pensavi di avermi, non ci sei riuscito».

Dovemmo sopportare Trissel a lungo, con le sue descrizioni del corpo di Fiora, le ombre e le luci dei suoi angoli dermici: tutti sapevamo che stava inventando, ma per non ferirlo e non deprimerlo lo ascoltavamo a bocca aperta. Alla fine quasi ci si credeva un poco tutti, alle sue dolorose fantasie. Meno si credeva alla distante freddezza di lei, forse perché ognuno di noi pensava di poterla sommuovere. Ad averne l’occasione.

L’episodio si concluse comunque con un niente di fatto, e il nostro problema di partenza restava insoluto.

Difficile sempre capire i dettagli delle cose e degli eventi, ma fu ancora più difficile capire una componente centrale della nostra “situazione”: questa parola prendeva ormai il posto di “ricerca”, “problema”, “circostanza”; era insomma molto più grave.

La situazione di alcuni stava diventando soltanto la circostanza di molti; e non c’era una parvenza di iniziativa sensata o audace, a sorpresa, non dico geniale.

Ebbene un fatto del tutto inatteso entrò nel gioco, quando fu proprio la “suddetta e famigerata” Fiora (eravamo arrivati a ridere di noi stessi, riconoscendo un nostro diffuso e disorientato desiderio) a piazzarsi d’improvviso una sera davanti a noi, al nostro gruppo truccato da compagnia di amici: aveva l’aria di aspettare risposte senza aver fatto domande.

«Fossi anche ridotta alla disperazione non mi accoppierei mai con uno di voi. Siete una banda di stupidi anomali. Ad ammucchiarvi uno per uno non riuscirei a far la somma di uno normale.»

Nessuno rispose, perché non doveva, e perché Fiora aveva ragione. Si sbagliava però sulla professionalità.

In una cosa aveva dunque torto, o quasi fingeva di non aver capito. Eravamo molto contenti di essere giudicati così, vuol dire che ci eravamo mimetizzati bene.

Devo anche dire che la stupidità non si finge facilmente e a noi veniva spesso bene, per natura.

La composizione del gruppo aveva seguito un principio, ma evidentemente c’era stata una leggerezza, o un passaggio inevitabile, che alla fine sembravano dare semplice autenticità, e un utile occultamento.

Difficile operare per lucido calcolo la raccolta di tante persone, tutte così intelligenti e che allo stesso tempo capiscono così poco. Aveva per certo contribuito alla scelta una fortunata casualità.

Ma la cosa non finiva.

Non mi sembrò che Fiora fosse sorpresa quando, una sera, aveva finito di piovere da poco, mi vide che la aspettavo all’angolo della strada che porta a casa sua.

«Siamo dalla stessa parte?»: Fiora dunque gioca con me a carte scoperte. Entrai a capofitto nella opportunità.

«Direi proprio di sì.» Mi buttai a fingere, contro tutto.

«Devo recitare per occhi lontani ma molto molto attenti. Stammi di fianco. Camminiamo insieme come se andassimo altrove. Allontaniamoci di qui.»

«Sono occhi nostri?»

«Purtroppo sì. Quando dico camminiamo insieme vuol dire come abbracciati. Sciogliti. Poi io torno a casa da sola, e ti aspetto fra un’ora. Ricorda bene intanto – ricorda – che i gesti sono quelli che contano.»

L’ho fatto, stringevo la sua spalla e lei cercò di ridere per disinvoltura, invece le venne un sorriso complice, e non ricordo altro.

Mi spiegano ora che io ero a terra fra l’inferriata di un giardinetto e il bordo di uno stretto marciapiede, che svolta su un grande viale, affinché mi potesse schiacciare un autobus. Fiora è scomparsa. Trudstone non dà segno di irrequietudine di nessun tipo. Si presenta regolarmente sullo schermo e legge e annuncia fatti diversi di cronaca qualsiasi, e sport e finanza.

L’unica nostra certezza è quella che avevamo da tanto tempo. E ancora non abbiamo la connessione che cercavamo.

Ricordo ancora e sempre distintamente il caldo del fianco di Fiora quando abbiamo camminato insieme, come se non avesse abiti a dividerci; o è un ricordo sbagliato. O lo voglio ridurre, o amplificare, tardivamente.

Le sue ultime parole alla fine della frase «… ricorda che i gesti sono quelli che contano».

La luce.

Lo schermo. I sensi riattivati.

Trudstone che legge le notizie e in parte le commenta, con gesti moderati e a volte, raramente, eccitati, senza però mai perdere una continuità dei movimenti delle mani e degli avanbracci con un eloquio neutro e i movimenti della bocca severamente modulati mentre gli occhi s’aggrottano o s’acquetano ombrati da sopracciglia folte e oscure, solo gli occhi ruotano in più direzioni socchiudendosi con gradualità misurate.

Questo diceva Fiora, che aveva scoperto il suo alfabeto. Della spia.

Io sto passando ore e giorni a trovare la sua sintassi elementare avendo ormai identificata una grammatica di pause e di valori sonori, intonazioni, ritmi; quasi un lessico sta ormai apparendo. Un alfabeto criptato.

Non devo dirlo a nessuno: sembra possibile che io possa sostituirlo su quello schermo come rischioso sostituto, una controfigura, un ruolo improvviso da giustificare; altri dovevano pensarci, calcolare, inventare. Per questo Fiora, che non era dei nostri, mi pressava il fianco fin quando si arrestò bruscamente per tornare indietro e disse «ti aspetto da me». Fu allora che mi prese quel freddo.

Penso che dovrò tacere, e esercitarmi.

La notizia non tarderà della uccisione di Fiora, forse da parte di rivali sconosciuti. O qualche colpa l’abbiamo noi, da capire. C’erano altri personaggi, pesanti, in giro. Sì, per certo.

Il licenziamento (definito provvisorio) di Trudstone era apparso infine normale, e logico, visto che recentemente era così teso da sbagliare letture e annunci (se non era stato volontario).

Ora viveva nella peggiore periferia della zona commerciale, forse con timori e progetti, sempre aspettando qualcosa o qualcuno.

A uno di noi è venuto in mente un discorso sulle responsabilità. Un altro mi ha suggerito, consigliato proprio, tante nostre attenzioni da ordire: ci sarebbe un sospetto che con ogni probabilità mi riguarda. E ci penso, da tempo.

Alfabeto e immagini.

Mi tocca. 

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