ODISSEO OVVERO DEL MULTIFORME INGANNO

 

di Bruno Pompili


Giuseppe Sticchi, I sogni di Ulisse



Il ritorno ripetuto, per immagini o per segni, della schiacciante ventura di Odisseo provoca sovente rinnovate illazioni attraverso documenti controversi o probabili; sempre torna il senso di un eccesso di polarizzazione della voce narrante che si configura come inevitata “depressione diegetica”.



Odisseo che era pur stato giovane e piuttosto impulsivo non usava quasi mai memoria di quel suo tempo.

Scontroso e spesso perfido, cupo la maggior parte dei giorni, dava l’idea di trovarsi sempre, proprio sempre, nel posto dove non voleva essere.

Agiva dunque per costante moto di sopravvivenza, pensando ad altro: così sfuggiva alla realtà, e la riprendeva di tanto in tanto senza calcolare i danni nel frattempo arrecati, poi sempre presentati come effetti involontari.

Dalle confidenze di Elena si sa che la semplice presenza di Odisseo incuteva timore, una pressione proprio al primo vederlo. L’aveva conosciuto da ragazza e ne aveva subìto un approccio fastidioso, prendendone le proprie distanze. Lui aveva allora ridacchiato impercettibilmente, prima di ignorarla del tutto, lei che era d’altra parte una giovane donna nella propria casa.

Dalle memorie o riflessioni scritte di Penelope si apprendono dettagli sul come egli avesse acquisito il diritto di sposarla e come si erano allontanati insieme dalla casa paterna con durezza inaudita: ma lei rideva con nuova complicità sotto la piega d’ombra di un mantello da viaggio.

Ora, tutto questo conta piuttosto poco di fronte al successo di quel nome attraverso gli anni e gli anni: un nome diventato un simbolo, a parte il successo indimenticabile del “cavalluccio di legno” (parole di Penelope), un’astuzia che girava da sempre nei giochi da bambini, e c’era anche lei a giocare.

Succede sovente che un simbolo venga usato, e che un’intera leggenda venga riveduta da punti di vista e di narrazione del tutto diversi, fino alla “depressione diegetica”, ovvero la ripetizione estrema che appanna, altera, scardina a piccole mosse gli architravi e arrugginisce i chiodi di una instancata ventura umana.

A testimonianza del corso costante (come si dice per una moneta) di quella coinvolgente storia, c’è la quantità di nomi che ne hanno rappresentato il protagonista.

Odisseo. Oudìs. Uti. Nessuno.

Ulisse. Che è già la traduzione di una traduzione, seguita da tante altre.

Avendo noi avuto bisogno di simboli per dare corpo ai sogni e alle idee, Odisseo era pronto per incarnarli, con l’aiuto delle invenzioni di un canto irripetibile, spesso rinnovato all’origine, carico di arcani sensi e di primitiva leggendaria evidenza. Impatto trasverso ai secoli.

Oggi il pacco leggendario, pluriconfezionato, presenta delle sdruciture, dei lati compressi, degli angoli schiacciati; la rinnovata offerta non è all’altezza della curiosità che ancora ci anima sulle pieghe del destino, e sulla ineguagliata speranza che esso contiene.

Nella breve storia che ci distingue e appartiene nei pochi anni è vero che già una volta, da ragazzi, ci si divideva in sostenitori, tifosi, partigiani di persone “nei pressi” di Odisseo, soprattutto Ettore e Achille; qualche raffinato si avvolgeva della storia di Aiace (quello per bene, l’impazzito, dei due); qualche amica parlava vaticinando sventure come Cassandra, una in particolare, fin quando ruppe con se stessa. Nessuna mai si rapportava a Elena, anche rifacendosi spesso il trucco.

Odisseo: solo ascoltato, e mai interpretato. Mai adottato. E non imitabile.

Abbiamo sovente ripassato racconti scena evocazioni diatribe furti follie uccisioni amori e forse passioni, altri inenarrati viaggi senza ritorno.

Questo per la parte della nostra ripetizione narrativa, per parole o per immagini; invero la prima depressione diegetica già stava in Odisseo, nella sua pulsione a dominare gli ascolti, a non potersene esimere, a rinnovare incontri intrecci e ritardi: ritardare il ritorno aumenta le possibilità diegetiche e allo stesso tempo organizza il grande racconto finale, che poi finale non potrà mai essere, secondo il mito acquisito in Ulisse dell’eterna ricerca dell’altro e dell’altrove, che saranno e sono un nuovo narrare.

A pensarci bene, c’era stato da sùbito troppo racconto, fatto sempre da lui stesso, Odisseo, che non lascia mai parlare gli altri, arrivando a far terra bruciata tutt’intorno o profittando di tempeste inaudite pur di restare l’unico testimone autorizzato a esporre invenzioni. Si impossessava anche dell’ascolto, governava l’udibile, godendosi le sirene che erano per gli altri silenziate.

Gli è dunque andata bene più di una volta.

Ma infine, quando l’evento risuona nel nostro tempo, e ora discende dalle nostre parole, e ne viene ridetto il racconto, e riviviamo la ventura in altro tempo assoluta, non si riesce mai ad avere un occhio buono e tollerante: sempre ancora ci appare meglio l’originale, tre volte e mezzo su quattro.

Ci perviene ormai uno stanco Odisseo che non regge più le interviste e le richieste d’autografi, o le provocazioni di una ragazzetta che si crede Nausicaa, e, come si era capito, non vuole neanche più tornare a casa perché si immagina già troppo, né, per altro, ha rinnovato a tempo e in giusta passione le parole per la nuova platea.

Non è più vero che gli basterebbe un riposo – in qualche parte tutta da immaginare – e così si creerebbe poi un successivo viaggio.

È già stato ventilato (curiosando, cfr. Lo sguardo e il velo. Riflessioni della regina di Itaca, Lanciano, Carabba, 2011), che durante gli anni dell’assedio di Ilio-Troia, nelle pause degli assalti, nel gran gioco dei duelli, Odisseo avesse scritto la gran parte della sua storia, che dunque contiene nascosto il suo proprio nome d’Autore.

Alla fine Uno Solo, quello Grande e per quel tempo Unico, avrebbe trovato le trame e le parole nuove quanto giuste per essere il suo impareggiato aedo, l’infinito cantore così straordinario da fare di Odisseo solo un personaggio e non più un Autore. Astuto e Ingannevole sì, ma non anche scrittore, benché della stessa successiva risma di inventori.

Negli ozi suoi di Ilio, nei pressi della morte d’altri, compilò serie di lettere di diverse date, preparate per scaglionata partenza verso la sposa e la dimora isolana, che sempre più piccola gli appariva. E di minore attrazione, l’una e l’altra. Qualche amica di tenda achea gli aveva appreso un di più, che non si cerca altrove.

Glielo ricordavano, nelle serate di governo delle scolte, gli altri eroi, nominando tempi e spazi e persone; cercavano di parlare qualche volta pur sapendo di essere poco ascoltati.

Odisseo aveva consolidato il suo piano, che era soprattutto un discorso, e poi una narrazione, seppur schematica.

Accumulava messaggi, che erano resoconti di avvenimenti a volte credibili a volte possibili e qualche volta, moderatamente, disumani: lì, eccelleva. Qualcosa di cui aveva udito frammenti da ubriachi o da fantasiosi indovini o per sogni variamente spiegati, si articolava in calcolata ipotesi e in interventi divini.

Ciò che era secreto, e per il suo dire infine vero, è che Odisseo se ne compiaceva ed era ormai pronto a ripeterlo per esteso, arricchito di momento in momento, sempre più stabile nella sua mente, definitivo a volte. I suoi sogni presero forme e sembianze, spazi e percorsi, incontri e addii, che aveva sempre di più bisogno di esporre. Restava, occorreva, a quel punto che Troia rapidamente cadesse e dunque egli si ricordò del gioco spesso giocato del gran cavallo cavo.

Sunteggiate e scansionate, ordinate in serie e in tempi di spedizione, lui stesso controllava da tempo rare partenze di missive; qualcosa cancellava o eludeva. Purtroppo il luogo restava un campo di guerra, con alti e bassi, dissidi e cangianti amicizie, nemici misteriosi a volte di grande attrazione, o la misteriosa triste quanto inquietante Cassandra, incontrata in giorni di tregua in tenda neutra in compagnia degli indovini achei.

Successe inevitabilmente che qualche plico di scritture o involucri di incise tavolette si confondessero con altri, e date e sequenze si alterassero; o si perdessero. Senza crederlo né aspettarselo Odisseo capì che c’era del vantaggio nella casualità, lasciò libera ogni partenza di messaggeri e messaggi, che ormai non poteva più controllare, essendo il cavallo in costruzione; si preparava ad assistere alla falsa partenza alleata e al gran massacro di una straordinaria città, che aveva intravista e molto ammirata.

Testimoni reticenti si dispersero poi per cause incontrollate e fatali quanto semplici in quel tempo; il viaggio di ritorno fu diverso per ogni gruppo e paese d’origine; si sapeva che nuovi lutti e divergenze marine avrebbero completato quella storia o terribili ritorni in case modificate dall’attesa o da cupi ricordi e nuove vendette concatenate.

Quanto alla regina di Itaca, l’arrivo di messaggi errati o confusi avevano aperto la sua lucida mente alla comprensione del gran viaggio narrato, e Penelope si preparava alla vera strage dei suoi pretendenti sposi per sottrarre a Odisseo la scena finale ma lasciandogliela alla fine credere, e poi raccontarla ad altri. Il compenso per lei, saperne di più. In verità.

Odisseo aveva capito, alla caduta di Ilio, che era il momento giusto di darsi disperso, per i suoi e agli altri. Poteva prendersi il tempo così come veniva, e intanto avrebbe verificato e meglio imparato a dire la sua impareggiabile storia. All’occasione.

Soprattutto non poteva sapere, e neanche sperare, per quel tempo, che una Voce di altra portanza e atemporale avrebbe veramente scritto la sua mirabile invenzione, organizzando nuvole e fiori, sogni e parole.

Né sembra oggi interrotta la triste copia, alla quale non ci riesce di sfuggire.

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